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Walter Amaducci: Testimonianze su don Lino



Giovanni Maroni



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GIOVANNI MARONI

LO STILE DI UN MAESTRO
Don Lino professore di religione

1. INTRODUZIONE CRONOLOGICA: “RELIGIONE” NEL GINNASIO
Ho incontrato per la prima volta don Lino Mancini nell’ottobre 1949, in Iv Ginnasio, nel Liceo-Ginnasio “V. Monti” di Cesena: era il mio insegnante di religione. Sono poi stato suo allievo in quella scuola negli anni seguenti fino al termine del corso ginnasiale-liceale e precisamente negli anni scolastici 1949-’50 (IV ginnasio), 1950-’51 (V ginnasio), 1951-’52 (I Liceo), 1952-’53 (II Liceo), 1953-’54 (III Liceo).
Conoscevo don Lino per fama per una singolare circostanza “politica”: nel 1946, in vista delle elezioni, nel marzo, amministrative, e nel 2 giugno per la Costituente e il Referendum Monarchia – Repubblica, venne a Bagnile per un comizio. Abitavo a S. Martino in Fiume e i miei genitori mi portarono ad ascoltarlo. Avevo 11 anni, ma in quei giorni si parlava di politica quotidianamente, mio padre leggeva quotidianamente il giornale, me lo passava; in un’area massicciamente comunista, sapevo che noi eravamo cattolici, religiosi e quindi anticomunisti. C’era una sensibilità diffusa, magari superficiale, ma appassionata anche in noi ragazzini. Ricordo il suo argomentare serrato, i documenti che aveva con sé e, con assoluta nettezza, la conclusione che mi colpì profondamente: « E quando andrete a votare ricordate i nostri prigionieri in Russia che non sono più tornati. Tutte le nazioni hanno restituito i prigionieri italiani, Stalin no, in spregio dei trattati internazionali». Queste parole impressionarono tutti.
Poi, tre anni dopo, lo ebbi come professore. Timidissimo ragazzo, studente molto diligente, ascoltavo le sue lezioni con grande attenzione e interesse. La religione devozionale, sincera e seria, tuttavia, appresa in casa e in parrocchia, nelle sue lezioni acquistava un carattere di forte convinzione, aveva orizzonti larghi e precisi, e scioglieva a poco a poco un’atmosfera di fede mescolata a paure e a proibizioni, specialmente a un Dio punitore dei peccati, e che condannava all’inferno, con parole incoraggianti e positive, specie sulla Grazia e l’Amore di Gesù, ma senza sdolcinature: il discorso era forte, netto, dotato di quella chiarezza che in don Lino nulla toglieva alla passione educativa. Potrebbe apparire una sovrapposizione di giudizio adulto quanto sto dicendo, ma il passaggio improvviso da un’angusta educazione religiosa familiare e parrocchiale a un’apertura alle verità della fede ben diversa si imprimeva con forza nella mente e nell’anima del preadolescente. I contenuti della fede erano gli stessi, ma acquistavano una prospettiva positiva collocati nella verità centrale di un Dio che salva. Ricordo una lezione, in particolare, sulla Grazia, nella realtà di assimilazione a Cristo, nel suo essere vitale, e non solo nel senso di essere in grazia o no.
Cominciai ad individuare, nelle lezioni del Ginnasio, un aspetto, che poi mi divenne molto chiaro pedagogicamente, una decina di anni più tardi, nella “Scuola per dirigenti dell’Azione Cattolica”: il rigore espositivo si accompagnava a una tensione spirituale fortissima, ad un ardore persuasivo che convinceva, scioglieva dubbi, ridava novità alle antiche parole, dava il gusto della verità che brilla all’intelligenza e al cuore.
Era passata da poco la guerra: giudicando ex-post, Don Lino era, in questo lavoro di catechesi formativa, nello stato d’animo di chi “ricostruisce” e comunica un’educazione alla fede (tali erano le sue lezioni) per i nuovi tempi del cristiano militante. Impegnato nell’Azione Cattolica diocesana, chiamato nelle parrocchie a incontri con i giovani portava nella scuola l’ansia di strutturare solidamente la crescita cristiana di ragazzi per lo più docili, ma immersi nella confusione o nelle contrapposizioni del dibattito politico, che toccava frequentemente temi religiosi.
L’ora di don Lino si imponeva come interessante, vivace. Avevamo il testo, in uso da molto tempo nel Ginnasio-Liceo, di don Giovanni Ravaglia, Armonie divine, che poi ho ripreso da adulto e molto ammirato. Don Lino aveva raccolto una difficile eredità e quindi si misurava con un confronto impegnativo. Ma egli costruiva la lezione in un suo personalissimo modo: nelle classi del Ginnasio prevaleva la lezione, cioè lavorava attorno ad un tema- la Grazia, la figura di Cristo, la fede in Dio, la salvezza e il piano di Dio. Ma era un’esposizione che si staccava nettamente dal consueto procedere delle altre lezioni, di Italiano, di Storia e così via, perché entrava nei problemi vitali delle scelte di fondo che un sedicenne, un adolescente nell’urgere delle tensioni legate alla definizione della propria identità personale, ha coscienza di dover compiere. Allora i contenuti della lezione ti toccano, suscitano idee, emozioni, dibattiti, e stai attento. Don Lino ci interpellava direttamente, ci sollecitava ad intervenire, introduceva nel discorso riferimenti alle sue esperienze: la montagna, la guerra recente, la Resistenza. Il discorso religioso si legava alla vita, alla storia recente senza forzature. Mi sembrava, insomma, molto interessante.

2. L’ORA DI RELIGIONE NEGLI ANNI DEL LICEO: L’ORA PIÙ BELLA DELLA SETTIMANA, CHE INTERAGISCE CON TUTTE LE ALTRE.

Si potrebbe caratterizzare il passaggio dall’insegnamento della religione nel Ginnasio a quello del Liceo, nella pedagogia di don Lino, in questo modo: da una catechesi “aperta” a una “scuola di cultura”. Non avrei saputo dirlo allora con questa chiarezza, naturalmente. Ma il nuovo stile – nella nuova consapevolezza data dall’età, sia pure con una maturazione lenta dovuta all’ambiente di campagna in cui vivevo, - suscitò in me entusiasmo, un interesse partecipativo fortissimo. I miei compagni di scuola “laici” obiettavano, ma erano anch’essi catturati da un orizzonte culturale che spaziava dalla letteratura alla filosofia; da un ordine razionale limpido, soprattutto da una straordinaria capacità di collocare la problematica religiosa e le risposte della fede, al centro della vita umana, soprattutto “dentro” l’esperienza dei ragazzi, o di una generazione di ragazzi, che oggi mi appare “fortunata”. Siamo prima dell’avvento della televisione, nei primi anni Cinquanta. L’interesse per la politica (è ancora recente la grande battaglia del 1948) è vivissimo. Nelle parrocchie l’Azione Cattolica, giovanile soprattutto (la Giac), sta vivendo una stagione di efficace presenza educativa. Si sta ricostruendo il Paese dalle ferite della guerra, c’è una dignitosa povertà materiale diffusa, non è ancora spuntato all’orizzonte il consumismo, che sovvertirà, negli anni Sessanta, stili di vita e ideali e valori. La scuola è rigorosa, severa. Nello stesso tempo il Liceo non è più la scuola esclusiva di élite, che era prima della guerra, si è “democratizzata”, con l’ingresso di numerosi ragazzi che vengono da famiglie povere o modeste e dalla campagna. C’è un’alta percentuale di studenti per i quali lo studio è il fattore principale o unico di promozione sociale. Molti provengono da famiglie dove hanno ricevuto un’educazione cristiana. Per dire che l’insegnante è di fronte a una classe disciplinata, ricettiva, interessata all’ascolto. Inoltre nella sezione B, quella da me frequentata, alcuni insegnanti sono dichiaratamente cattolici e coloro che non lo sono, hanno per don Lino grandissima stima.
In questo quadro assai favorevole, il don Lino degli anni Cinquanta, nella piena maturità come docente, come sacerdote, come uomo dalle molteplici esperienze educative e culturali – uomo di studio e di dialogo con i giovani – produceva un insegnamento capace di incidere a fondo nei ragazzi. Don Lino si imponeva senza sforzo, senza preoccupazione di disciplina, solo col prestigio della sua cultura e personalità. Si faceva capire per la chiarezza del suo linguaggio. Era attento alle persone, anche singole, sapeva scherzare al momento giusto, sapeva ascoltare le obiezioni, ma sapeva anche liberarsene, quando erano capziose con una battuta. Un giorno si parlava di matrimonio, di amore, di sessualità, e lui era impegnato a rispondere. Lo studente gli domanda, con aria di sfida: - Ma come può un prete, che non ha esperienza del sesso, parlare e dare precetti su queste cose? – E don Lino, spazientito: - Per parlare degli asini non è necessario essere asino!-
La vasta cultura _ filosofica, classica, storica alimentata dalla passione autentica per lo studio e la lettura – gli consentiva le incursioni nei diversi territori del sapere, cosicché il discorso cristiano era radicato in una problematica umana che faceva riferimento ai grandi testi delle religioni e delle letterature. Così i principi della fede e della morale cristiana si calavano nella concretezza esistenziale delle eterne domande dell’uomo e acquistavano persuasività, collegandosi con le domande brucianti della nostra adolescenza e giovinezza. La ricca esperienza umana di don Lino – gli studi a Roma, la guerra, la resistenza, il passaggio del fronte, l’apostolato fra i giovani dell’Azione cattolica, le battaglie politiche – si inseriva naturalmente nel discorso, gli dava sapore e vigore. In particolare ricordo la sua esperienza della montagna, che per lui era metafora della bellezza, della difficoltà, delle prove della vita. In montagna si tace, non ci si lamenta della fatica, si è disciplinati, si segue chi guida, chi è davanti cammina sul passo del più debole della fila: è così che si arriva. Parlava speso delle sue ascensioni, dei rischi, della tenacia e sangue freddo che occorre nei passaggi difficili, per arrivare sicuramente. Molti, poi, hanno imparato da lui ad andare in montagna, alla sua scuola, in apparenza troppo intransigente, in realtà sapiente.
Le sue lezioni erano dense, il professore si spendeva senza risparmio. Poteva sembrare troppo duro nel chiedere attenzione e partecipazione, senza troppi momenti di dispersione. Ma poi si scopriva che nella sua personalità c’erano due componenti, strettamente integrate fra loro: l’educatore che ti chiedeva il massimo, perché la scuola è il tempo per crescere, e la dolcezza di padre che sapeva guardarti negli occhi come persona, non solo come studente. Io ero, come ho detto, entusiasta di quelle lezioni, perché vi trovavo uno stimolo forte a pensare, ad affrontare il groviglio dei problemi di quell’età, a rasserenare una sensibilità religiosa ereditata su note troppo cupe, talvolta angosciose e anche, come ho detto sopra, devozionali, di disciplina troppo severa. Un giorno decisi di fermarlo fuori di scuola e di dirgli la mia gratitudine: lo sentivo più padre autorevole, che professore nel senso didattico e scolastico del termine. Lo chiamai mentre era a metà di via Chiaramonti per andare a S. Cristina: facendomi forza, timido com’ero, glielo dissi in termini imbarazzati, mi capì, sorrise con affetto e mi disse: - Anch’io ho molta stima di te. Sei cresciuto. Vienimi a trovare. – Ci andai, nel suo studiolo a S. Cristina, nella parrocchia, e si stabilì un rapporto più stretto. Don Lino, che era subissato di impegni, veniva alle gite scolastiche della classe. Lavoravo nell’Azione Cattolica della mia parrocchia, S. Martino in Fiume, il mio più caro amico al Liceo era Giangiacomo Magalotti, alunno della sezione A della classe parallela, dirigente diocesano della GIAC, e possiedo un certo numero di fotografie a tre, Giangiacomo, don Lino ed io, di quelle gite di non lunghissimo percorso.
Ho l’abitudine di scrivere il diario fin da ragazzo. In un quadernetto dalla copertina nera, sotto la data 8 giugno 1954 (la scuola era terminata il 5, sabato, ultimo giorno della terza liceo, e don Lino ci aveva invitati, chi voleva, liberamente, ad andare al Monte, in cripta, per salutarci), un martedì, trovo la sintesi di quel memorabile incontro, in uno stile un po’ emotivo, idealistico, rugiadoso.
« Non so come cominciare. Sono ancora commosso. Siamo andati al Monte, stamattina. Eravamo, oltre a me, la Luciana [Guidi], la Gabriella [Pollini], l’Anna, la Grazia, la Colombo, la Paola, la Trombini, Morellini [Africo] e Giangia Magalotti che è salito con me. Ci siamo trovati lassù in un bel gruppetto con d. Lino, una magnifica figura di prete che ha voluto riunirci per l’ultima volta. Ha celebrato la Messa, che io ho servito con Giangia. Dopo il Vangelo, si è rivolto verso di noi attentissimi, e ha pronunciato brevi parole, brevi, ma che ci entravano dentro: ognuna di esse era una consegna, alcune delle ragazze piangevano sommessamente. Egli ci ha parlato come un padre che parla ai figli in procinto di partire per un lungo viaggio verso l’ignoto.
- Il Signore vi ha affidato senza dubbio un grande compito. Egli vi ha dato la possibilità, fra tanti vostri compagni, di poter allargare i vostri orizzonti culturali e spirituali con gli studi che state per terminare e con quelli che comincerete. Per questo dovete avere profonda gratitudine verso il Signore. Per questo vi dico anche che avete una grande responsabilità: il Signore ha posato i suoi occhi particolarmente su di voi per affidarvi una missione, un incarico essenziale. Egli si attende molto da voi. Ho voluto riunirvi proprio oggi qui – anche se siete pochi – perché questo è un momento decisivo per voi. Gli studi avranno un radicale cambiamento. Si spezzeranno abitudini consolidate, e voi forse avrete la sensazione di essere soli, in una grande solitudine. Ma vi sia di guida e di conforto quello che io vi dico: il Signore ha fatto su di voi un grande disegno. Voi non dovete deluderlo! Sarà nella famiglia, nel servizio del prossimo in una professione, sarà fra grandi difficoltà, forse. Verranno per voi momenti angosciosi, in cui vi sentirete terribilmente soli e sconcertati. Pensate a questa ora che abbiamo passato serenamente insieme e a quello che io vi dico. Il Signore vi ama, uno per uno, personalmente, individualmente [e ha sottolineato i due avverbi]. Egli vi dà i mezzi per attuare i suoi disegni. Siate generosi e pronti. L’avvenire vi attende alla prova. Ricordatevi sempre che il Signore vuole da voi molto, vuole che voi percorriate quella via che egli vi ha assegnata. Non deludete la fiducia tutta particolare che Egli ha dimostrato nei confronti di ciascuno di voi. Siate sempre con Lui nel vostro cammino, sereni e fiduciosi! –
Poi ci ha chiesto scusa se non ci ha dato quegli orientamenti nella scuola che avrebbe voluto darci, e si è di nuovo voltato, come di scatto, a nascondere la commozione, continuando la Messa. C’era, intorno, un silenzio profondo. Giungeva soltanto il canto sommesso dei monaci, che facevano le lodi del mattino nel coro. Mai forse siamo stati uniti spiritualmente ed emotivamente come in quel momento. Tutti pensavamo al nostro avvenire, dove conducesse la strada che il Signore ci aveva assegnato…. Qual era il suo disegno? Un sentimento misto di gratitudine, di fiducia, di interrogazione animava in quel momento le nostre anime giovanili. Ci siamo accostati alla Comunione con un fervore nuovo. Ci incontreremo ancora? Ora incomincia una nuova vita. Mi risuonano ancora nella mente le parole della preghiera che don Lino ha detto con noi subito dopo la Messa, quando non era ancora rotto l’incanto di quell’incontro: Fa, o Signore, che la mia anima sia pura come l’acqua dei torrenti che scendono dalle montagne, che la mia volontà sia salda come il granito della roccia…
Poi siamo usciti. Fuori il mattino splendeva sulle colline, sul verde ondulato dei campi, sull’azzurro del cielo. Abbiamo un poco scherzato. E siamo discesi. Ma l’impressione vivissima di quell’ora ci era ancora dentro. Non la dimenticheremo. Com’è bella la vita, vista nella luce del Cristianesimo! Vivere la vita sotto gli occhi amorosi di Dio».
Ritrovo, negli accenti ingenui del diario giovanile, i messaggi di don Lino: il disegno di Dio sulla nostra vita, la vita come missione, l’amore di Dio che non abbandona mai. E l’idea, così efficace pedagogicamente, di quel commiato ai piedi della Madonna del Monte.

3. DON LINO, IN UN’INTERVISTA (26 OTTOBRE 1995) PER IL CORRIERE CESENATE, ESPONE IL METODO DEL SUO INSEGNAMENTO.

Nel 1995, in ottobre-novembre, d’accordo con don Piero Altieri, direttore del Corriere Cesenate, in quattro puntate settimanali (a cominciare dal 16 ottobre), feci a don Lino una lunga intervista col registratore sulle diverse “stagioni” del suo magistero: i tempi dell’Azione Cattolica, del “Cenacolo sociale”, di “Gioventù studentesca” e di “Comunione e liberazione” e, naturalmente, dell’insegnamento della religione cattolica nel Liceo classico “Monti”. Una parte dell’intervista fu dedicata anche alla guerra, alla Resistenza e all’impegno politico post-bellico.
Lo studio di don Lino, a S. Domenico, era ingombro di carte e libri. Il mio antico insegnante aveva conservato memoria pronta e vigile, assoluta franchezza e sincerità, libertà di giudizio. Mi accolse con affetto, mi dedicò molto tempo, quanto ne volli. Gli dissi all’inizio. – Lei è stato maestro di più generazioni, e sarà questo il titolo delle interviste, che saranno pubblicate dal settimanale diocesano, e ha vissuto la sua esperienza di educatore in ambiti diversi della Chiesa di Cesena: l’Azione Cattolica, “Comunione e liberazione” e, prima, “Gioventù studentesca”, e, in tempi precedenti, “Il Cenacolo sociale”, tanto che associazioni e movimenti diversi la chiamano “padre”. E poi ha vissuto una vicenda di estremo interesse negli anni drammatici della guerra, della Resistenza e dell’immediato dopoguerra al tempo delle grandi battaglie politiche. Vorrei ripercorrere questa storia con Lei, perché abbiamo ancora bisogno del suo originalissimo esempio di come si coniugano fede e politica, di come il Cristianesimo si incarna nelle vicende quotidiane.
Fu disponibilissimo, guardò solo con diffidenza il registratore… ma lo accettò. Già anziano e segnato dagli anni, aveva però l’antica freschezza e vivacità di linguaggio, quella chiarezza ed efficacia di parole, che ha sempre strappato l’ammirazione. Mi sentivo più che mai debitore a lui di una paternità che mi ha, e ci ha aiutato in modo decisivo a crescere, a maturare, a scoprire il senso della vita e a viverla pienamente: non era un maestro ex-cathedra (sebbene ne avesse la statura), ma era colui che camminava davanti a noi, esperto di umanità e grazia, uomo di cultura e di Dio, faticando come noi e con noi, come quando si andava in montagna. Sapeva comunicare il suo Cristianesimo integrale senza mezze misure, non solo con la lucidità del teologo, ma con la convinzione profonda dell’uomo di fede, che per primo fa le scelte più costose. Intransigenza provocatrice, ma attenzione tenera alle persone.
Gli chiesi dunque: - Caro don Lino, mi parli dell’ora di religione, di quelle ore che per me sono state estremamente formative, perché vi trovavo ciò di cui avevo bisogno, proprio nel momento della crisi adolescenziale, quando si rimette tutto in discussione e si gioca il tutto per tutto. Mio padre si arrabbiava, perché gli dicevo che non avevo avuto solo un padre, cioè lui… Come si deve fare l’ora di religione? Oggi si fa in modi diversissimi, dalla discussione sui temi di attualità o sui valori etici, alla trattazione di temi giovanili, come l’amore, l’amicizia, all’esame delle varie religioni.
Ecco la risposta, pubblicata sul Corriere Cesenate del 18 novembre 1995:
« Non bisogna prendere in giro né i ragazzi né se stessi. Bisogna partire da questo: aiutare i ragazzi a prendere coscienza dei problemi più profondi e radicali della loro persona, che sono quelli di tutte le persone, cominciando col chiedersi: chi è una persona umana? Tutti fanno le domande: che posso avere? Dove posso divertirmi? Come posso far carriera? Non si sa distinguere quello che è bene e quello che è male, ognuno se lo inventa o lo prende dalla moda. La prima domanda, dunque, è aiutare il ragazzo a chiedersi: chi è lui, lei! E avvertire i due problemi, implicitamente presenti nelle domande, che sono: il problema del mistero della sua persona, e cioè: perché io ho questo bisogno così profondo di essere amato sempre (almeno quando sono libero dentro)? Per me vivere è uguale ad essere amato. È un dato “fisico”, perché noi nasciamo dai nostri genitori, e anche psicologico-spirituale (per cui si spiega questo bisogno che abbiamo di amicizia e il dolore per ogni tradimento dell’amicizia). Perché, dunque, ho questo profondo bisogno di essere amato per vivere? E di essere amato completamente e per sempre?
È inutile che lo nascondi e tenti di riempire questo bisogno con delle cose, con dei surrogati, perché tradisco me stesso e rimango più povero di prima. Poi il secondo problema è: perché questa stranezza, questo assurdo che nello stesso momento in cui ho cominciato a vivere, ho cominciato a morire: la morte comincia a mangiarmi nel primo istante in cui vengo al mondo?
Non si fa festa perché si hanno 18 anni di vita, ma si corregga: si hanno 18 anni di meno da… vivere! Una persona che non si pone questi due problemi, non saprà mai chi è e soprattutto non sarà mai “intelligente”, nel senso che non “leggerà mai dentro” (intus legere). Dopo c’è tutta la ricerca delle risposte a queste due domande: c’è la cultura, la letteratura, i filosofi, l’ascolto degli scienziati…».
- Da Giobbe a Lucrezio, a Leopardi, ai tragici greci?
« Certo, si arriva a risposte parziali, non risolutive. Allora io, partendo dalla cultura greca, che è andata molto a fondo come tentativo di leggere i problemi dell’uomo, proponevo “la notizia” che Gesù Cristo, questo personaggio storico (ed ecco i documenti che parlano di Cristo) ha dato risposta risolutiva a questi due problemi. E soprattutto i Vangeli e le lettere di S. Paolo. Leggevamo i brani di chi non aveva sentito parlare di Gesù Cristo, ma ci aveva vissuto insieme, e cominciava l’esperienza della convivenza con questa persona eccezionale, da tutti i punti di vista, e soprattutto nei due punti che rispondono a questi due bisogni: primo il suo modo di concepire l’amicizia (quando disse nel Cenacolo: un amico è uno che dà la vita per i suoi amici, e inventò la Messa). Secondo: “Mi uccideranno, ma il terzo giorno risurgerò”. Se questo non fosse accaduto, il Cristianesimo non esisterebbe, perché è l’annuncio di un fatto, che S. Paolo chiama follia, cioè l’annuncio che Dio è diventato uno di noi, è entrato nella nostra storia personalmente, e ha fatto la scelta di morire, senza che ce ne fosse bisogno, per togliere l’alibi di dubitare che egli ci ama fino a morire per noi. Chiedevo ai ragazzi: non vi sembra questa la notizia più entusiasmante e che risponde ai nostri bisogni più profondi e veri? Se è vero, come fate a dire: non mi interessa? Vuol dire che non ti interessi di te»
- Lei agganciava, quindi la loro dimensione esistenziale. Ma stavano attenti? Oggi c’è da vincere un muro di indifferenza, la voglia di fare altro…
«Io non permettevo mai che alcuno facesse altre cose. Seguivano con attenzione, perché si trattava di loro, del loro destino; non ho mai avuto problemi di disciplina. Lo studio del Cristianesimo sul piano storico aveva sempre una connotazione esistenziale!»
- Che cosa pensa di chi imposta l’ora di religione come esame delle varie religioni?
«Io direi: il Cristianesimo non è una religione ( e in parte anche l’Ebraismo e il Mussulmanesimo). Per “religione” si intende il tentativo dell’uomo di parlare della divinità, di capirla. Se la divinità è muta, non ti ha mai parlato, tu rischi di inventarti Dio (come dice Feuearbach). Invece le tre religioni monoteistiche sono la presa di coscienza che Dio si è rivelato, mentre le altre religioni sono un tentativo nel cammino dell’uomo verso Dio. Allora cominciavo con la chiamata di Abramo (Gen. 15).
- E chi è fuori dal Cristianesimo, a cui non arriva la buona notizia?
«Ci sono dei presentimenti, delle aspirazioni cristiane nelle religioni non cristiane, che il Cristianesimo realizza. E c’è, nella teologia, il battesimo del desiderio implicito: chi vive secondo coscienza, segue la divinità come la conosce, egli ha, in certo senso, il battesimo. C’è una presenza operante del Dio cristiano, misteriosa, che vuole la salvezza di tutti. Noi siamo privilegiati, perché abbiamo avuto un dono in più, però è una responsabilità, una chiamata, che arricchisce e impegna».
- E se venivano fuori problemi particolari, di carattere storico e morale?
«Allora mi fermavo e rispondevo. Mi portavano naturalmente il mal esempio di Alessandro VI, di Giulio II. Dicevo: nella Chiesa non è mai venuta meno la santità, non solo dei santi proclamati, ma della santità nascosta, perché Cristo è sempre presente e salva. Cristo ha fatto una Chiesa di uomini, non di santi e di angeli. Leggevamo brani del Vecchio e del Nuovo Testamento per rispondere alle varie domande, perché i problemi venivano affrontati confrontandoli con l’annuncio del Cristianesimo, sia pure collegato con le materie scolastiche.
Naturalmente, si faceva la proposta di vivere anche nella scuola la comunità cristiana, trovando momenti di preghiera insieme (le Lodi a Boccaquattro, prima delle lezioni; la Messa al mercoledì, con la chiesa piena), ma non nel senso di separarsi dagli altri, di ritenersi migliori! Ho già detto dei gruppi di studio.
Io tornavo spesso sul tema della irripetibilità di ciascuno, per cui si diventa entusiasti di essere al mondo: tu sei unico!
Le gite, infine, non erano una scorazzata qua e là, ma un’occasione di riflessione. Ricordo una memorabile gita a Vienna, la Messa insieme (invitavo tutti a venire a Messa) per Pasqua, e la visita a Mauthausen, da cui i ragazzi uscirono commossi. E una settimana di Pasqua a Parigi, e alle tre del Venerdì Santo in chiesa, tutti. E le gite in montagna!»


























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