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Walter Amaducci: Testimonianze su don Lino



Silvia Acerbi



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SILVIA ACERBI

A quasi un anno dalla sua morte, ho avvertito il bisogno di annotare alcuni pensieri in forma di lettera indirizzata al don Lino degli ultimi anni che, pur sopraffatto dalla malattia, non smise di possedere il dono di comprendere senza giudicare, l’intuizione profonda dell’individuo, la capacità di far sentire ognuno di noi unico e irripetibile per lui, come lui ci insegnava che eravamo per il Padre, ma soprattutto al Don Lino degli ultimi mesi, che continuò a regalarci, oltre a sguardi smarriti e confuse parole, sciabolanti ed enigmatiche interrogazioni sapienziali.
Settembre 2002


“Si incomincia a capire il valore di qualcuno quando il suo ingegno si indebolisce, quando cessa di far vedere ciò che egli può”.
Friedrich Nietzsche, Di là dal bene e dal male

Caro Don Lino,
permettimi di scrivere della tua ultima stagione - da me vissuta con pause lunghe, a causa della lontananza - la più difficile, per te e per quanti ti amammo, ma anche, forse, quella più vera, come avresti detto tu, quella che serbo dentro di me come un dono misterioso, il cui senso, riflesso per speculum in aenigmate, spero di riuscire a scoprire con il tempo.

Nessuno può dire per quanto tempo la tua malattia, come torrente carsico, fece il suo corso sotterraneo prima di dare le prime avvisaglie, sotto le spoglie di una persistente tristezza. Io penso, magari sbaglio, che fu quando prendesti congedo dal tuo impegno di pastore. Che fosse giunto per te il momento di lasciare la parrocchia mi parve allora severa perizia di parte. Non eri vecchio, - per me non hai mai avuto l’età che dicevano gli altri, ma sempre e solo la mia, in ogni fase della mia esistenza - ancora ce la potevi fare. E’ certo che avevi la memoria stanca e per la prima volta in tanti anni dimenticavi, con mio grande disappunto, ricorrenze e compleanni. La memoria, ma non il cuore che alimentava una personalità vigorosa, senza reticenze, cui l’inoperosità avrebbe fatto male.

Ad ogni mio rientro mi apparivi più taciturno e assorto. Pochi anni, mi dicevo, forse soltanto mesi e inesorabile l’infermità ti avrebbe estraniato dalla vita di quella comunità che con impegno tenace avevi contribuito a formare. Come uccello sbrancato saresti stato ignorato da molti che, senza confessarselo, non ti avrebbero perdonato di sopravvivere alla tua intelligenza. Coloro che avevano ammirato il teologo, l’intellettuale, l’uomo di trincea, il libero pensatore, il prete, il grande oratore, non sarebbero stati capaci di riconoscerlo in un vecchio demente.

Nella prima fase della malattia smarrivi spesso la strada del ritorno alla Casa del Clero dove mai, forse non solo per colpa tua, riuscisti a sentirti come a casa. La sofferenza che nasceva dalla consapevolezza del tuo stato si traduceva in pensieri gravi che si confondevano tutti insieme sulla tua fronte, respirava nei gesti ora lenti ora nervosi, e nei passi sempre più incerti di quando, era estate, ti si vedeva tornare affaticato da solitarie passeggiate al Monte. Tu che mai perdesti la facoltà di guardare ogni cosa con lo sguardo intenso dell’infanzia, ti facesti in quei mesi mite e arrendevole come un bambino che senza opporre resistenza, se non quella del pudore, si affida docile a cure amiche.

Appartengono a questa fase le rievocazioni più indimenticabili della tua infanzia, gli squarci intensissimi della tua giovinezza. Come già in passato, facevo tesoro di quelle confidenze emozionate e emozionanti che mi parlavano della mamma troppo tenera per punire le marachelle del più inquieto dei suoi dodici figli, di un ragazzo timido nel fervore di studi e di affetti, delle solitudini di un giovane seminarista, il più brillante suo malgrado. E poi le battaglie, le delusioni per le requisitorie contro il tuo coraggioso anticonformismo, le intransigenze. Un temperamentaccio tu, qualche difettaccio, certo, nessun difettino. Ancora si poteva scherzare...
Il palinsesto dei racconti della montagna acquistò in quel periodo nuovi colori. I tuoi ricordi si arricchirono di particolari quasi fiabeschi, commossi abbandoni descrittivi in cui il rimpianto si fondeva con l’immaginazione, bellissimi racconti popolati di animali del bosco, come la mite cerbiatta che in una notte solitaria scaldò con il suo il tuo corpo salvandoti da una morte certa. Io restavo ad ascoltarti affascinata.

Con il passare dei mesi apparivi sempre più inquieto e crucciato. Parlavi poco, malvolentieri. Nell’universo solitario e disincantato di una piccola stanza - gli scuri quasi sempre chiusi, come la porta, serrata con la chiave - dove già neanche i libri riuscivano a farti compagnia, la malattia ti rese diffidente, in mezzo all’imbarazzo, non sempre benevolo, degli altri preti. Tu selvatico, appassionato, irriducibile, prodigiosamente vitale, eri per la prima volta indifeso. Quanto dovevano farti male, nei momenti sempre più rari di lucidità, quelle ore desolate dopo un’esistenza piena! C’erano gli amici, è certo, la solidarietà organizzava i turni, c’era chi fraternamente ti accoglieva all’altare per fare la Messa, e ti aiutava a vestire i paramenti. C’era chi - lo sguardo apprensivo, a volte le lacrime - da un banco della Cattedrale, seguiva il tuo smarrirsi fra le righe del messale, le parole incepparsi, e poi una pausa imbarazzata, una cesura troppo lunga, un silenzio. Ma arrivava il Vangelo, e prodigiosamente ti ritrovavi quando ci parlavi della speranza che dà senso all’inanità della vita, della libertà che Cristo ci ha conquistata.
Non hai smarrito la capacità di penetrare nelle cose, e di renderne conto senza infingimenti o abbellimenti. Mai ovvio, mai convenzionale, sempre rigoroso e autorevole, forse meno perentorio e affilato, ora più pacato, così almeno pareva a noi che avevamo amato in passato anche i tuoi enunciati più impazienti e più duri.

A poco a poco i tuoi occhi oscuri divennero insondabili come remoti pozzi. Sembravi giacere nella profondità spenta di quegli occhi ove non brillava più la fierezza. Era inutile rievocare i ricordi del passato, creava in te smarrimento, anche se, mi raccontavano, talvolta ancora intonavi i canti della montagna e sorridevi. Eri molto impaziente. Continuamente chiedevi a che punto era il giorno, a che punto la notte. Il breviario era la tua unica bussola. Eri ossessionato dal timore di non adempiere all’officio quotidiano. “Fatto tutto”. “Fatto tutto”. “Tutto fatto fino a Compieta”: annota la tua grafia incerta su un calendario liturgico di cinque anni fa (ma per te non esistono più gli anni, solo il lento trascorrere delle ore). “Oggi fatto tutto!” Intuisco nell’esclamazione il sollievo di una tregua momentanea all’ansia. Trascrivo da un biglietto la tua angoscia: “Sono le ore 3 e 54 minuti (mattina o sera?). Mi risveglio da una sonnolenza. Penso a un errore, e che sia già ora di pranzo. Vado in cucina, Nessuno. Vado in Duomo. Nessuno. Che ora è? Che giorno è? Sono le ore 3 e 57 minuti di giovedì 16 settembre (dice il telefono)”. Stringo fra le mani quel pezzo di carta e pensando alla tua croce, piango.

Anche fra i vecchi del Don Baronio fosti il più inquieto. Regalavi scarsi sorrisi, non ci abbracciavi quasi più. Come per una suprema saggezza finale divenisti essenziale, restio alle amplificazioni emotive, quasi indifferente agli affetti che si muovevano attorno a te, alla fedeltà di stima, di gratitudine, di amore, fatta di mani che stringevano le tue, ogni giorno più nervose, di buffetti sugli zigomi sempre più ossuti, di carezze sulle guance scavate che anch’io teneramente toccavo rammentando i versi di Turoldo (“io non ho mani che mi accarezzino il volto...”) che avevi amato tanto. Volevi scrivere, e ti si davano fogli come ai bambini; e se non c’erano fogli scrivevi sulle pagine dei giornali, sui tavoli, sui fazzoletti di carta. Anche sui palmi delle mani che a gara ti porgevamo affinché ci affidassi dei messaggi. (Hai scritto così poco tu. In mezzo ai libri, insieme alle genzianelle e alle stelle alpine, abbiamo raccolto una manciata di note manoscritte. Frasi ridotte al minimo, talora in poche battute essenziali - a te bastavano due parole per parlare ore -, qualche foglio di appunti che ha bisogno, per riempirsi, della tua voce viva, della tua intelligenza lucidissima, onesta anche nell’errore, che vibra e si infiamma dinanzi a una platea tesa nell’ascolto).
Neanche allora perdesti l’esigenza irriducibile di rigore, il bisogno etico di un fondamento. La tua mente conserva l’attitudine allo schema, e cerca la logica interna, si sforza di trovare i nessi: «Eppure bisogna andare al sodo!», «Devo rettificare!» e, mai dimenticherò, fu quasi un grido - rivolto non a noi che siamo lì, ma lontano, altrove - «Ma io ho bisogno di una verità sicura!»

Caro amico, questa lettera che ha deciso di tacere le contentezze del nostro cammino insieme, la complicità gioiosa e fraterna di valori, affetti ed esperienze appassionatamente condivisi, per farsi testimonianza del tuo dolente calvario, non è oltraggio all’idea di te, che resta forte schietta volitiva, ma doloroso controcanto alla fragilità umana che tu ci hai aiutati a non temere, nocciolo duro di un dolcissimo frutto che a lungo ci ha alimentati. Scrivo per dirti, dirmi, che anche la stagione della tua sofferenza è stata feconda perché ha arricchito la nostra storia con te di rapporti inediti, e io voglio pensarla come una sorta di adempimento finale, vetta ultima faticosamente scalata per poterti guardare attorno, come un esploratore che completa da solo le ultime, difficili fasi di una ascensione. E giunto in cima alla montagna, immagino la tua amata voce, fattasi ora ancora più carezzevole, pronunciare parole lette pochi giorni or sono in un tuo minuscolo manoscritto: “Tienimi vicino a te Signore, nella pace. Io sono tranquillo e sereno”.





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