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Walter Amaducci: Testimonianze su don Lino



Don Walter Amaducci



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In occasione del mio XXV di Ordinazione presbiterale (25 settembre 2001) annotavo alcune riflessioni che mi portarono anche a soffermarmi sulla vicenda umana di don Lino Mancini, grazie ad un rinvenimento di alcuni scritti di cui ho parlato in più occasioni. Scrivevo testualmente:
«Mentre era in atto il mercatino dell’usato, durante la festa parrocchiale del giugno scorso, sono venuto in possesso di alcuni documenti emblematici a questo proposito. Innanzi tutto della lettera autografa che Pietro Pironi, condannato a morte, scrisse allo zio Armando il giorno prima di essere decapitato in Germania. (…) Gli altri documenti sono ancora più inquietanti. Si tratta dei quaderni spirituali rigorosamente riservati - come si scriveva allora sulla copertina - e di altri quaderni con appunti lucidissimi di lezioni bibliche o di altri argomenti appartenuti a don Lino Mancini.
Don Lino è ricoverato da tempo nella Casa di riposo don Baronio. La sua vecchiaia, ormai priva dell’acuta consapevolezza e dei limpidi guizzi di genio che hanno fatto amare, stimare e odiare questo uomo per decenni, sta tramontando pietosamente e come soffocata dai tentacoli del contrappasso. E questi scritti, capitati forse non a caso nelle mie mani, sono adesso dentro una sportina di plastica, su un ripiano di mobile nell’ufficio parrocchiale in attesa di una collocazione almeno un po’ rispettosa o fosse anche solo furtiva e pietosa.

C’è una vena aurifera dentro la scelta della cremazione, uno zampillo di verità stranamente sommerso. Il fuoco possiede una dignità di custodia, risvolto della sua potenza di distruzione o di purificazione, e questa urna impenetrabile non è necessariamente coincidente con il nulla».
Rievocavo poi gli inizi del mio ministero presbiterale che era stato quasi subito caratterizzato, ad appena un anno dall’Ordinazione, dall’incarico di insegnante di Religione al Liceo Ginnasio “V. Monti” di Cesena.
«Questo e altri problemi scomparvero del tutto quando fui nominato professore di religione al Liceo classico. La scelta cadde su di me innanzi tutto per designazione alla successione da parte di don Lino Mancini, o per essere più corretti per la sua preoccupazione di segnalare al vescovo un insegnante “fidato”. Mi giunsero infatti all’orecchio indizi di una indagine che don Lino aveva svolto per conto proprio, a mio riguardo. Altri elementi sorgevano nelle conversazioni con don Ezio Casadei, col quale di tanto in tanto mi confrontavo. Il nuovo vescovo, mons. Amaducci, fu tra i primi a farmene parola e già in termini sicuri».
Pochi giorni dopo dovetti riprendere in mano lo scritto per un aggiornamento che non era previsto, ma che si impose per l’importanza dell’evento:
«Martedì 2 ottobre è morto don Lino. Da tre o quattro anni aveva perso, come dicevo alcuni giorni fa, la sua eccezionale lucidità ed era ricoverato al don Baronio dove appunto è spirato. L’ho visto per l’ultima volta nella bara, dentro un abito da monsignore ormai troppo largo, con bocca ed occhi semi aperti, lo sguardo fisso nel vuoto e un dente d’oro troppo rilucente.
Ho ripensato al primo ricordo che ho di lui, lungo il porticato del vecchio seminario in via Roverella. Gli avevo chiesto l’autografo, come stavo facendo con tutti i preti che incontravo per la mia prima raccolta del genere. Mentre pazientemente stava scrivendo commentò: «Babìn, no perd de temp cun st’al sciuchézi!». Ma penso soprattutto ai due anni di Bologna, quando ci affascinava la sua capacità di lettura e di sintesi non solo delle vicende di attualità, ma della vicenda umana in sé. Anche in tutte le altre occasioni di incontro o di collaborazione, rarissimamente mi ha deluso.
Il 4 ottobre in San Domenico, la chiesa straripava di gente, di affetto, di stima e di riconoscenza. Un «maestro di vita per numerose generazioni di studenti», ho scritto nel manifesto funebre a nome del Liceo, dove aveva insegnato per 29 anni dal 1948 al 1977. Ho fatto riferimento a lui alcuni giorni fa, all’inizio di queste riflessioni, a motivo di quei quaderni spirituali giunti in modo rocambolesco nelle mie mani. La contemplazione di quello che passa e di quello che rimane si fa a questo punto stringente e drammatica».

La conoscenza di don Lino come “maestro”, come ho già ricordato, risale soprattutto ai due anni di Propedeutica trascorsi al Seminario regionale di Bologna, prima di trasferirmi a Roma per gli studi di Teologia. Ebbi don Lino come insegnante il primo anno (1969-1970) per tre corsi di introduzione alla Sacra Scrittura, e precisamente: Storia del Canone, Storia del Testo e Greco biblico.
Don Lino era molto rigoroso e diligente, fino a prepararci per tempo le “dispense” per agevolare il nostro studio in vista degli esami. Siccome però gli incisi e i “fuori programma” riguardanti svariati temi di attualità, di ecclesiologia e di antropologia erano così frequenti ma soprattutto così interessanti da coinvolgerci tutti e totalmente, gli proponemmo di dedicare le ore di lezione a quelle tematiche, riservandoci di affrontare gli argomenti del programma direttamente sulle sue dispense.
Egli accettò di buon grado e di quelle lezioni “alternative” conservo ancora gli appunti manoscritti, ma soprattutto alcuni schemi indelebilmente impressi nella memoria, che hanno costituito in quegli anni così turbolenti sul piano ecclesiale, e nel periodo successivo della mia esperienza ‘romana’, un sicuro criterio di discernimento, di giudizio e di scelta.
Di qualche anno prima ricordo una conversazione altrettanto affascinante che, in modo del tutto informale (in attesa di iniziare un incontro alla Villa Madonnina di Soraga, in Val di Fassa, dove ci trovavamo per un campo-scuola col Seminario diocesano, nel luglio del 1966) ci rivelò la passione di don Lino per la montagna. Raccontava vere e proprie avventure da lui vissute, con descrizione di arrampicate e di passaggi critici ai confini dell’incoscienza e della spericolatezza. Resta il fatto che di quei metri, di quelle pareti e picchi, conservo nella mente veri e propri ‘filmati’ impressi semplicemente dall’efficacia delle sue parole.
Quelle parole avevano sempre esercitato sugli ascoltatori un effetto al limite dell’incantesimo. Ben prima che potessi rendermi conto della novità dei contenuti della sua omiletica (ero ancora un ragazzo e molti aspetti non potevo coglierli) non mi sfuggiva la reazione altrui. Ricordo che durante una omelia pronunciata in cattedrale da don Lino, uno studente di teologia che faceva parte del drappello dei nostri assistenti in seminario (chiamati “prefetti”) prendeva accuratamente appunti di ciò che stava ascoltando. Fu come una segnalazione efficacissima: “Fa’ tesoro della parola di questo prete, perché è fuori dell’ordinario!”.
Fuori dell’ordinario, dello scontato, del banale: prima ancora di aprire bocca don Lino prometteva di essere così, perché era sempre stato così. Quando fui nominato insegnante di religione al Liceo classico tenni contatti stretti con lui, per ovvie ragioni legate all’inserimento e ai primi passi in una missione per me totalmente nuova. Tra le iniziative scolastiche ed extrascolastiche nell’ambito di una pastorale con gli studenti e con i colleghi docenti, attingevo abbondantemente al patrimonio del suo lavoro e della sua esperienza. Accadeva anche di invitarlo a guidare qualche incontro. Quando i destinatari erano i docenti, invitavo tutti indistintamente, cattolici e non cattolici, memore del commento di un collega laico che mi confidò con franchezza come il tempo passato ad ascoltare don Lino non fosse mai tempo sprecato.

Durante i lavori preparatori del Sinodo diocesano, mi avvalsi ancora una volta della sua collaborazione. Sul piano dottrinale continuava ad avere una straordinaria capacità di sintesi e altrettanta prontezza nel cogliere al volo le possibili ambiguità di temi e formulazioni. Consapevole di questa sua prerogativa anche sul piano sociale e politico, non mancai di interpellarlo e invitarlo a fornire criteri interpretativi della situazione presente alla luce della sua ricca esperienza in proposito. Fu proprio durante un incontro del genere, alla fine degli anni Novanta (il tema era quello della vicenda storica del comunismo) che per la prima volta mi accorsi con grande tristezza di un cedimento della sua memoria: ripeté più volte le stesse osservazioni e gli stessi aneddoti evidentemente dimentico di averli affrontati pochi minuti prima.
Iniziava quel declino che è stato sotto gli occhi di tutti, e che non ha risparmiato neppure lui quanto a rammarico, amarezza e umiliazione. Perché don Lino si è reso conto di questa sua nuova fragilità e in qualche modo ha vissuto il suo «eccomi» finale, o almeno penultimo, con lo spessore disarmato degli ‘anawîm, dei poveri di Dio della tradizione biblica.





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