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Walter Amaducci: Testimonianze su don Lino



Don Dante Piraccini



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DON DANTE PIRACCINI

L’ULTIMO DON LINO

1.
Non era più quello d’una volta, pur conservando la fierezza del suo comportamento.
Camminava a testa bassa per andare in Duomo, umiliato ma non abbattuto, sofferente ma non smarrito, triste ma non rassegnato, sorretto da “una badante”.
A me è subito balzata davanti agli occhi la vecchia del Caravaggio, che assiste impassibile alla morte di Oloferne.
Quella scena di drammatica insensibilità ha distrutto tutte le facili interpretazioni agiografiche.
Era come se la condivisione fraterna non fosse stata la sua anima profonda, era come se questo costituisse l’inevitabile destino di tanti genitori.
Quella, mattina poi Don Lino aveva pregato così:
“Signore, Dio della mia salvezza,... mi considerano finito... hai fatto fuggire i miei amici... “ (Salmo 88,1-9 passim)
Alla fine abbiamo lasciato solo l’omileta dall’anima vibrante, l’amico della comunicazione interpersonale, il compagno delle più avventurose escursioni, il prete dalla gentilezza delicatissima, capace di confrontarsi con le situazioni più conflittuali.
Anche San Paolo, di cui Don Lino a scuola ci aveva trasmesso le vibrazioni dell’animo, era stato abbandonato da tutti. (2 Tim. 4,1-16).
È bastato che il suo cuore stanco cedesse perche noi ricambiassimo la sua generosa dedizione con l’ingratitudine dell’indifferenza.
Me ne resta in gola tutto l’amaro perché anch’io vorrei che questo non fosse avvenuto ma so che tornerà a ripetersi.
Ma noi continueremo a proclamare solennemente che l’intimo nucleo della nostra religiosità è fondato sulle relazioni interpersonali.
È dura da elaborare la dolorosa sensazione che le nostre comunità non abbiano saputo esprimergli tutto l’affetto e la comprensione che gli dovevano.
Don Lino non ce l’ha mai rimproverato perché ha sempre pensato più agli altri che a se stesso impegnandosi sempre per una valenza umana di collaborazione costruttiva.
Tra lui e noi c’era una distanza che potevamo facilmente colmare ma non ci siamo mai preoccupati di ricercarne le cause.

2
Ci sembrava temerario, quando s`improvvisava rocciatore, ma sapeva arrampicarsi rispettando la montagna. Ci è sembrato sognatore, quando ha affrontato direttamente tante battaglie e ha camminato davanti a tutti, a costo di rimanere solo.
Senza attendere nessun riconoscimento, riusciva sempre a farsi ascoltare coinvolgendoci nella sua passione per la ricerca d’un orizzonte di senso.
Ma il nostro inconscio ci ha portato ad attribuirgli una qualche ingenuità, probabilmente dovuta alla fiducia, che riponeva negli amici.
Quello che appariva all’esterno assomigliava, nell’insieme, al solito schema di contrasto chiaroscurale da palinsesto televisivo: era quello delle convinzioni più saldamente radicate e socialmente avanzate ma, quando noi non riuscivamo più a mantenere il suo passo, procedeva da solo, col suo coraggio.
Era già tutto scritto nel capitolo 4° della seconda lettera di Paolo a quelli di Corinto ai versetti 8-12.
Alla base c’era, forse, il fatto che Don Lino ci ha impresso l’entusiasmo e lo slancio verso l’alto, ma poi qualcuno s’è sentito un po’ trascurato da lui nella stanca monotonia della quotidiana fatica di vivere.
Non che ci fosse una frattura vera e propria (è avvenuto anche questo) ma cavillatura e crepe sì perché tutti hanno avvertito il vuoto, che, senza di lui, s’è venuto scavando dentro di noi.
Michelangelo da Caravaggio ne ha incolpato il tempo dipingendo la splendida audacia giovanile di Giuditta e contemporaneamente prevedendo un’impietosa ragnatela di rughe nell’arcigna insensibilità dello stesso volto, cinquant’anni dopo.
“Forse bisognerebbe aver vissuto molte vite...
Per volare sull’abisso non esistono regole ma solo la lealtà e la sincerità del cuore”
(M. Garzonio, Il cuore dei preti, Ediz. S. Paolo, 2010, Milano, p.6).

3
Quando i figli abbandonano il nido per vivere la loro vita, non dimenticano il babbo, che invecchia in solitudine, ma stentano a dimostrargli la piena concretezza del loro amore.
Abbiamo condiviso con Don Lino momenti fondamentali sperando che non svanissero per il fatto che l’esistenza dei figli ha un ritmo diverso da quello dei genitori.
È stato lui a produrre l’accensione, e poi ci ha lasciati liberi di seguire la nostra strada, pur continuando a procedere contemporaneamente sulla sua via parallela, dove soffiava l’alito bruciante del deserto.
II deserto è fatto anche di silenzio, che per lui era una necessità, un elemento di stile essenziale per essere se stesso e pensare.
Noi glielo abbiamo concesso in abbondanza perché ci è mancato il colpo d’ala per salire fino alle sue altezze.
Perciò “la badante” m’è apparsa, non come un’ingiuria ma come la compagnia più antitetica e più estranea, che potesse accompagnarsi a Lui.
Era l’incomunicabilità. Realtà e simbolo.
Oggi il problema della solitudine ci sembra meno tragico perché e sempre più diffusa. E non soltanto tra i preti.
Ma, fra di noi, è più inquietante perché isolamento e anaffettività diventano le concause della nostra incapacità di lavorare insieme.
Più che un’affermazione la mia è una domanda, che la gente comincia a porsi perché non le abbiamo mai dato riscontro.
Pare che i credenti ereditino un’amicizia e un’energia conclamata, che poi non riescono a vivere fino in fondo.

4
Ammetto anche che la mia sensazione sembri soggettiva ma è deliberatamente contraria ad ogni giudizio sulle persone e volutamente limitata a mettere a fuoco soltanto i fatti e, magari, le maschere del teatro plautino della vicina Sarsina.
Personalmente ho letto con intensa soddisfazione i tre volumi di omelie e ringrazio coloro che si sono affaticati per restituirci il Vangelo secondo Don Lino.
Aggiungo soltanto i volti della gente, a cui egli si rivolgeva, e mi manca quel suo palpito ispiratore, la sua ansia pastorale, il santuario segreto dove il Volto di Dio veniva tradotto per noi.
Dentro c’è tutto il nostro mondo d’incertezze e di resistenze, di dubbi e di decisioni ma c’è anche Don Lino, che calcolava l’effetto e l’impatto. delle sue parole nella coscienza degli ascoltatori, rispondeva alle loro obiezioni e risolveva i nodi più aggrovigliati con una risonanza senza enfasi suscitando un’eco di partecipazione emozionale.
Sperava anche per noi e instaurava un rapporto perché la speranza costruisce sempre una relazione.
Più del registratore i filologi hanno rivisitato le omelie portando a termine un ottimo lavoro di paziente, colta, attenta e dignitosa ridefinizione.
Ma inevitabilmente 1’anima,è un’altra cosa: irriproducibile.
E anche Don Lino.
Ritengo che “un convegno viva voce” renderebbe più completa, fremente e provocatoria quest’esigenza comune di significato.
Penso a don Clemente Rebora, (e Don Lino ha abitato anche nella via omonima) che “vigilava l’istante” nell’imminente attesa d’un Signore, che non può non essere fedele, e la cui promessa è già pulsante subito al di là della nostra soglia di percezione.
Ritrovo lo stile di Don Lino nella sua ammirazione, per gli abeti altissimi, senza le nostre esitazioni, diritti, sicuri e con le radici, che si diramano penetrando in profondità nel terreno abbracciando i massi fino a frantumarli.
Si fermava davanti ai ruscelli scroscianti cercando nelle loro fredde trasparenze il percorso sobbalzante di coloro che credono di conoscere la strada della loro felicità.
La sua fede era un fatto vissuto, non un’idea ma un avvenimento storico-dinamico, un fattore di crescita, come quello della Rita Levi Montalcini perché la strada in salita è aspra e affaticante ma poi ti da la gioia della conquista di te stesso, la soddisfazione di guardare il mondo a 360 gradi e di respirare aria pura, non inquinata dal grigiore limaccioso della pianura.
E di nebbia noi dovremmo essere esperti, se non siamo, ancora riusciti a cogliere, come T. S. Eliot, la grandezza della Chiesa, che dev’essere continuamente ricostruita perché è distrutta continuamente dagli attacchi interni, prima che da quelli nemici.
Ci siamo scoperti, vivi a galleggiare nel gran mare dell’esistente, con un orizzonte così basso e così breve, che non ci permette di vedere molto più in là di noi stessi.
Ma così condizionato e senza grandi risorse, l’esistente è fragile e senza difese.
Eppure il cuore, che deve affrontare il vissuto quotidiano, vuol alzare lo sguardo al di sopra dell’ingenua apparenza delle cose perché, nell’immenso vuoto del nulla, l’elemento più ragionevole è la speranza che la nostra verità sia molto più vasta ed aperta.
Il violinista di Marc Chagall invita tutti gli abitanti del villaggio a far festa e suona il suo strumento volando leggero in un cielo, che è suo perché la vita è più grande e più vera di quello che immaginiamo.
M’hanno raccontato l’episodio di quell’artista di strada, che s’è fermato davanti alla carrozzella di un bimbo cerebroleso per fargli gustare la sua armonia.
E’ riuscito a far vibrare tre anime in sintonia perché la musica ha subito invaso il cuore del ragazzo e di suo padre che, allentando la tensione, hanno scoperto un nuovo stile di comunicare tra di loro.
Ogni creazione conosce il travaglio ma da quel buio nasce anche il richiamo alla luce.
Allo stesso modo don Lino ha svolto un servizio alla fatica dell’uomo, che cerca disperatamente il significato della sua esistenza in un mare di cose che passano e di uomini vuoti.
Quell’esperienza di Dio noi la dobbiamo ripetere per essere sinceri con noi stessi ponendo i problemi subito, sul tavolo del dialogo, e prima delle soluzioni.
Con quel rispetto per la libertà della gente, che i preti una volta chiamavano umiltà, prospettando una strada, su cui tutti possano camminare perché tutti conoscono, l’ansia e l’inquietudine di fronte al proprio destino.
E il gusto per la verità.
Ieri no ma oggi Don Lino troverebbe donne e uomini, che non adattandosi più alla mediocrità riduttiva del sistema attualmente in auge, sono in grado di sostenere questa sfida adulta e senza polemiche per 1o scambio di proposte, di idee e di tolleranza, capaci di camminare insieme.
Perché questa è la Chiesa.






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