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Walter Amaducci: Testimonianze su don Lino



Maurizio Bianchi



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MAURIZIO BIANCHI

«La vita, se si aprono delle circostanze che vengono accolte bene, si apre, improvvisamente, ad una grandezza che era addirittura impensabile. Chi avrebbe pensato che … ».
Chi avrebbe pensato che, un bel giorno, mi sarei trovato a far parte del gruppo di redattori dei volumi delle omelie di don Lino, eppure quel giorno è venuto, quando l’amico Lele, il professor Leonardo Lugaresi, mi ha proposto di aiutarlo nel lavoro di revisione dei testi omiletici.
Onorato e contento; ho sentito una gratitudine forte; avrei vissuto ore ben spese, un tempo ben impiegato, che per un pensionato è un grande dono; avrei ripreso e approfondito l’incontro con una persona che ha contato e che conta per la mia vita, uno di quegli incontri che determinano la propria statura umana.
L’occasione offertami, la circostanza che mi si è aperta di fare memoria di don Lino, attraverso la lettura di tante sue omelie, è stata anche l’occasione di una proficua rivisitazione della mia storia, quella legata alla sua presenza, dagli anni del Liceo a GS, CL fino alla sua morte.
Un rivolgersi indietro non tanto per sforzare i ricordi, per conservare, quanto per lasciar rifluire e recuperare, per l’oggi e, se possibile, per il domani, tutto ciò che appartiene all’insegnamento, alla catechesi di don Lino. (A questo proposito si potrebbe redigere un utilissimo catechismo con le parole tematiche e i pensieri delle omelie: Il catechismo di don Lino).
Ma soprattutto l’esperienza di memoria da me vissuta è stata un’esperienza di adesione alla persona, alla presenza di don Lino, un percorrere un cammino conoscitivo e liberatore.
Mio intento, ora, è di comunicare in maniera, spero, sobria e chiara, alcuni momenti, alcuni esiti di questo cammino di lettura.
Per descrivere il primo momento, ma forse è meglio parlare di movimento trattandosi dei primi passi di questa storia rivisitata, parto ancora da: “Chi avrebbe pensato che…”.
Infatti, chi avrebbe pensato che quell’allievo, che ero io, così apparentemente assente, indifferente, distratto, durante le ore di religione, da essere ripetutamente redarguito con espressioni ed epiteti forti e duri, in puro stile donliniano, (oggi, con l’aria che tira, rasenterebbero la querela) del tipo: “che cosa sei venuto a fare al Liceo classico, non era meglio se facevi il metalmeccanico!” (avevo il dono di fare arrabbiare don Lino, dono che, a rigor del vero, si estendeva anche ad altri insegnanti)… dicevo: chi avrebbe pensato che quell’allievo sarebbe poi entrato a far parte di quella compagnia da lui guidata per tanti anni e che sarebbe diventato uno degli incaricati (così si chiamavano agli inizi i responsabili di GS) della vita di Comunità.
Ci aveva appassionati al nostro destino, ci spingeva ad appassionarci al destino degli altri!
Ma vengo al punto che in qualche modo spiega anche il mio atteggiamento tenuto in classe al tempo del Liceo.
Istintivamente, intuitivamente avvertivo che l’insegnamento non era sufficiente, non adeguato ad imparare le cose che ascoltavo, non mi bastava la scuola, ci voleva altro! È stato un pensiero di Oscar Wilde a chiarirmi, molto tempo dopo, molti anni dopo, questo mio stato d’animo: «L’istruzione è una bellissima cosa, una cosa ammirevole, ma è bene ricordarsi, ogni tanto, che nulla di ciò che è degno di essere saputo può essere insegnato».
Don Lino ci provocava, ci spingeva a riflettere, a conoscere i grandi temi esistenziali (quelli che percorrono come motivi conduttori tante sue omelie), ci parlava, appunto, delle cose che devono essere sapute e non si possono insegnare: cambiare l’uomo, dare un senso alla vita, riconoscere in noi stessi una storia e un destino. E l’altro che mi occorreva è saltato fuori.
Uno dei detti preferiti di don Lino era ed è: vivere per capire, cioè incontrare, seguire quello che accade. Era l’incontro vero che mi mancava. La parola “incontro” descrive il vero apprendimento e segna la distanza, la differenza dall’insegnamento. Un vero incontro è quello che ci fa comprendere di appartenere. Quanto marcato in don Lino il senso della dipendenza, dell’appartenenza e ancor prima del senso religioso come un’intelligenza che si apre al mondo e non si chiude, rimane aperta ad un’attesa e ad un mistero. Un uomo che non sente di appartenere a qualcosa o meglio a qualcuno non è un uomo. L’uomo è una cosa che appartiene.
E don Lino proseguiva: è l’appartenenza ad una compagnia che permette, con le sue dimensioni (la cultura, l’attività caritativa, l’azione missionaria), il realizzarsi del cambiamento dell’uomo, che permette di dare alla propria vita un senso, di vivere l’esistenza come storia, di camminare verso un destino. Una compagnia che per non essere una mandria necessita di una guida, e qui si toccava uno dei tasti dolenti dell’esperienza cristiana: il tema dell’autorità. Per me è stato importante imparare a seguire senza personalismi. Don Lino mi ha insegnato non tanto a seguire la sua persona (per altro autorevolissima) con i suoi pallini (di difficile digestione), bensì l’esperienza che viveva. Nelle omelie troveremo tanti accorati inviti all’obbedienza come condizione della nostra libertà. Vivere l’appartenenza nell’obbedienza: questo è apprendere!
Il secondo momento: quello che più ha determinato la mia esperienza di insegnante (per questo mi sento particolarmente grato a don Lino) e che potremmo definire culturale, è così presente nelle omelie al punto da indicare la resurrezione di Cristo come il problema numero uno della cultura umana e il cristianesimo tutto come fatto culturale.
Tenendo costantemente presente che la fede non è qualcosa di autonomamente concepito, che non si diventa cristiani attraverso la riflessione o in virtù di una pratica morale, ma lo si diventa sempre per azione esterna, attraverso una grazia che può venire solo a partire dall’altro, bene e spesso, il tu della creatura che rimanda al tu del Creatore, ma, meglio, il tu di Cristo che ci fa incontrare il tu di Dio; tanto che senza questo faccia a faccia (espressione dell’esteriorità, della carnalità della grazia) si dissolve la struttura essenziale dell’esperienza cristiana.
Tenendo presente tutto questo, don Lino, agostinianamente, ci ha sempre spronati a credere pensando e a pensare credendo, perché «se la fede non è pensata è nulla!». Ci ha impegnati in un lavoro culturale per trasformare la verità creduta in verità saputa, a non avere nessun complesso di inferiorità nei confronti del mondo, a sentire umilmente, ma con gusto, che il pensiero cattolico non ha rivali!
Come esorta san Pietro nella sua prima lettera: «„Cristo nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto» (che lo si facesse sempre con dolcezza e rispetto beh! qualche riserva è lecito avanzare).
Per ultimo il momento più affascinante, il più teologico, il più cristiano, quello anche più legato, nel tempo, a questo lascito preziosissimo delle sue omelie, lo potremmo intitolare: Se diciamo: Dio è l’amore, diciamo tutto di lui. Un annuncio che, nella sua integralità, non si definisce con un discorso, ma si definisce con una carne.
«Ho visto la carne di Dio»: così don Lino per esprimere la sua esperienza di pellegrino in Terra Santa. Il Dio che è amore è il Dio di Cristo.
Dio si può pensare, si può credere in Dio: basta essere religiosi, devoti o esauriti, si può trovare Dio senza il suo aiuto, senza sapere chi è, per indorare questa vita gestita da noi di qualcosa di sacro; ma credere in Dio veramente è possibile solo se si fa vedere, se ci parla, se diventa uno di noi.
Mi fido di un Dio così perché mi ama da morire e perché vince la morte anche per me, per te, per noi.
Il suo è un amore folle.
Si è mangiato la morte per salvare tutti noi dall’essere nati perché la morte ci mangiasse tutti quanti.
Per questo il cristianesimo non è una religione, ma il contrario di una religione: è una amicizia!
Il Dio di Cristo non è il Dio muto delle religioni, è il Dio che parla: il Verbo si è fatto carne. Dio ha una mamma: don Lino ce ne parla come un figlio che crede che parlare della propria mamma sia sempre una cosa bella, parlare di Maria la cosa più bella.
Ci serve la bellezza per capire il divino.
E poi c’è il Dio bambino – il nostro fratellino – un bambino come gli altri, anzi, più disgraziato – dobbiamo vedere nei bambini la presenza quasi fisica di Gesù – se Dio ha scelto di essere bambino, un bambino ha bisogno di tutto, e Dio ha bisogno di tutto, e Dio ha bisogno di noi – per liberarci dalla tentazione dell’incubo e della paura di Dio, Dio ha scelto la strada più semplice: non si può avere paura di un bambino – questo bambino è Dio, ecco il Mistero!
Il Dio della fede cristiana mangia con noi, cammina con noi, ha un corpo come il nostro, è uno di noi: è alla nostra portata.
Si potrebbe andare avanti per molto, ma è il lavoro di lettura che attende un po’ tutti.
Le omelie di don Lino sono un pozzo senza fondo, possono essere lette secondo l’ordine dato dai curatori, ma anche diversamente, aprendo a caso il volume, comunque si leggano quello che leggeremo ci farà vivere ciò che ci fa crescere.
In conclusione, un passo dell’omelia pronunciata per il suo 80° compleanno in occasione della messa celebrata al Movimento di CL. E’ una stupenda preghiera – Preghiera per l’ultima ora – potrebbe intitolarsi:
Dio è amore. Ho sempre più bisogno che il Signore mi prenda per la mano e, se necessario, che mi prenda anche sulle spalle, come la sua croce, e mi porti.
Ringrazio ancora chi mi ha dato la possibilità di rinnovare l’incontro con don Lino: la vita mi si è aperta ad una grandezza impensabile.
Ringrazio tutti voi e spero che tutti ci sentiremo più giusti, cioè incorporati a Gesù Cristo e a lui fedeli, e più grandi, cresciuti con l’aiuto di don Lino, nella sua memoria.
Per chi come il Barone non amava le cerimonie penso che sia questo l’augurio più vero che possiamo farci.





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