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Walter Amaducci: Testimonianze su don Lino



Marco Garaffoni



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MARCO GARAFFONI

A San Domenico, don Lino aveva spesso a che fare con gli scouts del gruppo parrocchiale. Preparando le attività da svolgere con i ragazzi, noi capi spesso attingevamo alla ricca tradizione metodologica dello scoutismo in genere e dei gruppi di appartenenza in particolare; lui stava inizialmente ad ascoltare, poi ci chiedeva il perché di ogni cosa, non perché non lo sapesse, ma per aiutarci a riflettere, a non fare le cose solo per abitudine o per tradizione.
Qualcuno a volte perdeva la pazienza, perché c’erano molte cose da fare e non c’era il tempo per domande oziose di cui tutti sapevano la risposta.
Don Lino faceva benissimo ad insistere; non voleva la risposta immediata (“la causa ultima”), ma voleva che avessimo ben chiaro che ogni scelta educativa ha uno scopo: tirar fuori (e-ducere) dalla persona il bene possibile. “Fare del proprio meglio” è il motto dello scoutismo tante volte utilizzato. Questo esercizio era prezioso perché evidenziava una verità semplice, ma non scontata nel nostro fare quotidiano: il bene é dentro l’uomo (fa solo fatica ad uscire); concetto espresso da una frase di Baden Powell che spesso ci ripeteva il nostro capo reparto (quando qualcuno diceva “con quello non c’è niente da fare”) “in ogni persona c’è almeno il 5 % di bene”.
Allora il metodo scout era uno strumento, un aiuto per portare alla luce il bene che è nell’uomo, che, se non viene fuori, se non si esprime, rimane rattrappito, in potenza, impedisce all’uomo di realizzarsi, di compiere il proprio destino. Tutto ciò che non serve a questo è inutile quindi dannoso, perché fa perdere tempo, anche se fa parte della “tradizione” o del “metodo”.
Perché il bene è dentro l’uomo? Perché Qualcuno ce l’ha messo, dal momento che non l’abbiamo messo noi. La nostra tradizione religiosa ci dice che quel bene l’ha messo Dio, che è a Sua immagine e che la Sua immagine compiuta è il suo Figlio Gesù. Quale aiuto più efficace per un educatore che vivere una familiarità con Gesù (l’immagine compiuta) per saper riconoscere con sicurezza il bene presente nell’uomo e ciò di cui ha veramente bisogno!
Era chiaro allora il rapporto fra lo scoutismo e il cristianesimo: metodo il primo, contenuto il secondo. Qui ci voleva portare don Lino. Quello che non voleva era uno scoutismo astratto e velleitario che educa ai valori, applicati dall’esterno, senza mai indicare la radice, che è la chiave di interpretazione della realtà e la strada attraverso la quale è possibile alimentarli e realizzarli.

UNITÀ FRA PREGHIERA E VITA

Durante i nove mesi di preghiera per l’Italia promossi da Giovanni Paolo II nel 1994, nella parrocchia di S. Domenico, non ricordo quando e in che occasione precisa, dopo cena si teneva una preghiera nell’ambito della quale normalmente don Lino diceva qualcosa a commento di un brano di vangelo e collegato all’intenzione del Papa. Una sera mi incaricò di sostituirlo ed io accettai con un po’ di imbarazzo. Ero sposato da poco e aspettavo la prima figlia. Del mio breve intervento, ricordo solo il paragone che feci fra la gravidanza e la preghiera che il Papa ci invitava a fare (della stessa durata), evidenziando alcuni aspetti comuni (ad esempio che il frutto della preghiera deve essere concreto come quello della gravidanza... ). Il giorno dopo, don Lino, a cui qualcuno aveva raccontato, mi chiese se avevo detto proprio così, ed io confermai. Mi rispose con un sorriso molto eloquente, che esprimeva stupore e soddisfazione.
Don Lino non aveva un rapporto facile con gli ammalati, non era così attento e pronto alle visite a casa e all’ospedale, come altri preti che ho conosciuto. Diceva “quando sono lì non so che cosa dire, non so consolare, io che sto bene”. A volte raccontava del disagio provato davanti alla reazione di malati o di loro parenti alla visita del prete come anticamera del becchino. In parrocchia voleva che gli avvisi delle attività che si promuovevano arrivassero anche agli ammalati che invitava a partecipare con la preghiera (“nel modo più importante” diceva) offrendo le loro sofferenze perché attraverso queste, la comunità cristiana crescesse nell’amore di Dio. Recapitare l’avviso era anche un modo concreto per ricordarsi della presenza degli ammalati, per richiamarci che apparteniamo allo stesso corpo, della loro preziosa funzione e un’occasìone per fare una breve visita.

IL VALORE DELL’UBBIDIENZA.

Don Lino attribuiva all’ubbidienzaa un valore di primo piano nell’educazione. A volte diceva: «Chi è un cristiano? È uno che ubbidisce». Il motivo era questo: un’esperienza cristiana autentica si caratterizza necessariarnerne in una sequela di qualcuno che ti parla a nome di Dio, ti aiuta a conoscere Gesù, a stare con Lui per diventare come Lui. L’incontro con Gesù avviene tramite l’incontro con l’umanità di qualcano, di cui ti fidi e che segui.
Da questa consapevolezza traeva nel suo operare diverse conseguenze:

A) In primo luogo nei rapporti personali, con il suo carattere un po’ scozzese, era molto diretto e franco, non si sottraeva all’incontro anzi lo desiderava, pur essendo riservato e non sforzandosi troppo di far sentire a proprio agio le persone. Era sorprendentemente comprensivo per chi lo aveva sentito parlare solo in pubblico e ne aveva tratto un’idea di intransigenza, di chiarezza ma anche di durezza (qui trattava le idee, là le persone e queste venivano accettate integralmente).

B) La scelta dei catechisti e degli educatori: il primo requisito richiesto era vivere la vita della comunità parrocchiale di San Domenico perché a questo si dovevano educare in sostanza i ragazzi e si educa efficacemente solo a ciò che si vive. Ricordo che l’incarico di catechista diverse volte non venne assegnato a persone capaci e degne, che si erano proposte, ma che vivevano la loro esperienza in altri ambiti ecclesiali.
Nell’ambito dello scoutismo don Lino chiese ai capi di dar vita ad una Comunità Capi che vivesse l’esperienza scout all’interno e in comunione con il resto della comunità parrocchiale. I capi facevano servizio con i ragazzi, ma appartenevano ad una comunità capi che aveva sede a Palazzo Ghini e che non aveva rapporti con la comunità parrocchiale. Questa richiesta creò molte incomprensioni, tensioni e polemiche. Inizialmente un solo capo si inserì a San Domenico, uscendo dalla Co.Ca. di Palazzo Ghini. Poi si aggiunsero altri e si riuscì a formare una Comunità Capi come Don Lino desiderava. Questa dinamica della sequela, quindi dell’ubbidienza veniva sintetizzata nello scoutismo da tre parole che ci si ripeteva spesso “fare per capire”, che lasciavano intuire che questo seguire, ubbidire, non era alternativa all’uso della propria ragione, ma anzi la metteva in condizione di operare al meglio. Si chiedeva di applicarla nell’individuare le ragioni per dare fiducia e per continuare a verificarle fino a capire gradualmente con chiarezzaa i motivi di ciò che veniva chiesto.

C) La verifica con il sacerdote era strumento di questa sequela, che don Lino proponeva a tutti, ma in modo più sistematico ai giovani: consisteva in un incontro periodico con lui per fare il punto della situazione della propria esperienza personale alla luce di un criterio esterno a noi (quello di Gesù), ma capace di dare a tutte le esperienze un significato quindi un valore. Negli ultimi anni in cui ero capo Clan, don Lino, durante un incontro, richiamò in modo molto energico i ragazzi che erano passivi, disimpegnati e li invitò a ripartire dalla verifica mensile. Mia moglie, allora capo Clan, da sempre molto concreta ed efficiente prese molto sul serio il richiamo e si organizzò per concretizzarlo. Dopo aver chiesto a don Lino i tempi disponibili, preparò uno schema settimanale cercando di inserire tutti i ragazzi (allora fra i 40 e i 50) per un incontro mensile di verifica. Ne venne fuori uno schema per cui ad ogni ragazzo toccava un incontro di 21 minuti, se l’uscita e 1’entrata del successivo veniva effettuata in tempi da pit stop (es. ore l5 Ghirotti Enrico, ore 15,21 Valli Gaspare, ore 15,42 Lucchi Silvia…). Presa visione, don Lino, che non amava essere imprigionato in schemi troppo rigidi, se ne uscì con un “sel, sel, babina?” Nonostante le perplessità il programma fu accettato e per molti fu l’inizio di un rapporto personale con don Lino.






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