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Walter Amaducci: Conferenze



Inculturazione della fede e liturgia



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INCULTURAZIONE DELLA FEDE E LITURGIA



PREMESSA

Prima e più ancora che il suo patrimonio dottrinale o morale è quello rituale che dà visibilità ad una religione e anche ad una Chiesa.

Anzi sappiamo che la stessa parola ἐκκλησία-chiesa-convocazione compare per la prima volta, nella Rivelazione scritta, riferita all'assemblea del popolo convocata ai piedi del Sinai:
"Il Signore mi diede le due tavole di pietra, scritte dal dito di Dio, sulle quali stavano tutte le parole che il Signore vi aveva dette sul monte, in mezzo al fuoco, il giorno dell'assemblea. (Deuteronomio 9,10 - traduzione greca dei LXX. In Deut 4,10 era comparso il verbo radunami (ἐκκλησίασον).

Ecco che allora, al primo impatto con un'assemblea liturgica cattolica nelle varie parti del mondo, potrebbe sorgere qualche dubbio sulla nota dell'unità (una, santa, cattolica e apostolica) perché quel rito magari è assai diverso da quello della propria comunità. Ma come vedremo, unità non significa uniformità.

Proprio in relazione all'aspetto liturgico, esistono varie Chiese cattoliche sia in oriente che in occidente:

CHIESE CATTOLICHE ORIENTALI (GRECHE, SIRIACHE, ...)

- Rito bizantino (una Chiesa italo-albanese e quattordici Chiese greco-cattoliche)
- Rito alessandrino (copta, etiope)
- Rito antiocheno o siriaco occidentale (maronita, sira, siro-malabarese occidentale)
- Rito siriaco orientale (caldea, siro-malabarese orientale)
- Rito armeno (Chiesa armeno-cattolica)

CHIESE CATTOLICHE OCCIDENTALI (LATINE)

- Rito romano
- Rito ambrosiano
- Rito mozarabico
- Rito gallicano (lionese)
- Rito di Braga

Alcune di queste Chiese sono molto antiche, sia in oriente che in occidente e fin dall'origine sono unite alla sede apostolica di Roma. La Chiesa maronita, ad esempio, risale al IV secolo (S. Marone muore nel 410), come del IV secolo è il rito ambrosiano (S. Ambrogio: 340-397). Il rito di Braga risale al VI secolo. La prassi ha pertanto preceduto la riflessione teologica e pastorale sulla legittima diversità delle espressioni liturgiche.


1. UNITA' NON SIGNIFICA UNIFORMITA'


Il 4 dicembre 1963 i Padri del Concilio Vaticano II approvarono la Costituzione sulla sacra Liturgia, Sacrosanctum Concilium. Il documento affronta il tema dei diversi legittimi riti ai numeri 37-39, sotto il titolo "Norme per un adattamento all'indole e alle tradizioni dei vari Popoli".

37. La Chiesa, quando non è in questione la fede o il bene comune generale, non intende imporre, neppure nella liturgia, una rigida uniformità; rispetta anzi e favorisce le qualità e le doti di animo delle varie razze e dei vari popoli. Tutto ciò poi che nel costume dei popoli non è indissolubilmente legato a superstizioni o ad errori, essa lo considera con benevolenza e, se possibile, lo conserva inalterato, e a volte lo ammette perfino nella liturgia, purché possa armonizzarsi con il vero e autentico spirito liturgico.

38. Salva la sostanziale unità del rito romano, anche nella revisione dei libri liturgici si lasci posto alle legittime diversità e ai legittimi adattamenti ai vari gruppi etnici, regioni, popoli, soprattutto nelle missioni; e sarà bene tener opportunamente presente questo principio nella struttura dei riti e nell'ordinamento delle rubriche.

39. Entro i limiti stabiliti nelle edizioni tipiche dei libri liturgici, spetterà alla competente autorità ecclesiastica territoriale, di cui all'art. 22 - 2, determinare gli adattamenti, specialmente riguardo all'amministrazione dei sacramenti, ai sacramentali, alle processioni, alla lingua liturgica, alla musica sacra e alle arti, sempre però secondo le norme fondamentali contenute nella presente costituzione.

Il numero successivo del documento indica la modalità di un progressivo adattamento liturgico, suggerendo prudenza e sperimentazione preliminare:

40. Dato però che in alcuni luoghi e particolari circostanze si rende urgente un più profondo adattamento della liturgia, che per conseguenza è più difficile:
1) Dalla competente autorità ecclesiastica territoriale, di cui all'art. 22-2, venga preso in esame, con attenzione e prudenza, ciò che dalle tradizioni e dall'indole dei vari popoli può opportunamente essere ammesso nel culto divino. Gli adattamenti ritenuti utili o necessari vengano proposti alla Sede apostolica, per essere introdotti col suo consenso.
2) Affinché poi l'adattamento sia fatto con la necessaria cautela, la Sede apostolica darà facoltà, se è il caso, alla medesima autorità ecclesiastica territoriale di permettere e dirigere, presso alcuni gruppi a ciò preparati e per un tempo determinato, i necessari esperimenti preliminari.
3) Poiché in materia di adattamento, di solito le leggi liturgiche comportano difficoltà particolari soprattutto nelle missioni, nel formularle si ricorra a persone competenti in materia.

LE GRANDI ISTRUZIONI POSTCONCILIARI

Per facilitare l'applicazione del rinnovamento liturgico auspicato dai Padri conciliari, la Santa Sede ha successivamente pubblicato cinque documenti di speciale importanza, ciascuno dei quali numerati in un'unica serie come delle "Istruzioni per la retta Applicazione della Costituzione sulla sacra Liturgia del Concilio Vaticano II".

La prima, Inter Oecumenici, fu emanata il 26 settembre 1964, e conteneva i principi generali di base per l'ordinata applicazione del rinnovamento liturgico.

Una seconda Istruzione, Tres abhinc annos fu pubblicata il 4 maggio 1967 e stabiliva ulteriori adattamenti all'Ordine della Messa.

La terza Istruzione, Liturgicae instaurationes, del 5 settembre 1970, forniva innanzi tutto direttive sul ruolo centrale del Vescovo nel rinnovamento della liturgia in tutta la diocesi.

Il 25 gennaio 1994, la Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti ha fatto avanzare ancora tale processo con l'emanazione della quarta "Istruzione per la retta Applicazione della Costituzione sulla sacra Liturgia del Concilio Vaticano II", la Varietates legitimae, che tratta delle questioni difficili circa la Liturgia romana e l'inculturazione.

Il 28 marzo 2001 fu emanata la quinta postconciliare "Istruzione per la retta Applicazione della Costituzione sulla sacra Liturgia del Concilio Vaticano II", Liturgiam authenticam, sulla questione delle traduzioni liturgiche. L'istruzione serve da commentario intorno alle traduzioni nel vernacolare dei testi della Liturgia romana, come stabilito dall'articolo 36 della Costituzione liturgica.

L'Istruzione che affronta il nostro argomento è la quarta, la Varietates legitimae, del 25 gennaio 1994. L'istruzione era stata preceduta da due importanti documenti di Giovanni Paolo II:
Vicesimus quintus annus (14.12.1988) in occasione del XXV della Sacrosanctum Concilium, e
Redemptoris missio (7.12.1990) in occasione del XXV del decreto conciliare Ad gentes

Si sottolinea e si approfondisce il concetto di inculturazione della fede che diviene un'espressione sempre più utilizzata nonostante presenti qualche aspetto suscettibile di una interpretazione semplicistica. Cercheremo di mettere in luce questa possibile distorsione.

Va notato che dal punto di vista dell'attuazione, quello dell'inculturazione si affianca al problema di una Chiesa centralizzata ben presente alla volontà riformatrice di papa Francesco, come possiamo leggere al n. 32 dell'esortazione apostolica Evangelii gaudium:
"Anche il papato e le strutture centrali della Chiesa universale hanno bisogno di ascoltare l'appello ad una conversione pastorale. Il Concilio Vaticano II ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le Conferenze episcopali possono "portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente". Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un'eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria".

2. INCULTURAZIONE DELLA FEDE

L'enciclica Redemptoris missio pubblicata da Giovanni Paolo II il 7 dicembre 1990 in occasione del XXV anniversario del decreto conciliare Ad gentes, sotto il titolo Incarnare il Vangelo nelle culture dei popoli ai nn. 52-54 affronta il tema dell'inculturazione della fede.

52. Svolgendo l'attività missionaria tra le genti, la chiesa incontra varie culture e viene coinvolta nel processo d'inculturazione. E', questa, un'esigenza che ne ha segnato tutto il cammino storico, ma oggi è particolarmente acuta e urgente. Il processo di inserimento della chiesa nelle culture dei popoli richiede tempi lunghi: non si tratta di un puro adattamento esteriore, poiché l'inculturazione "significa l'intima trasformazione degli autentici valori culturali mediante l'integrazione nel cristianesimo e il radicamento del cristianesimo nelle varie culture". E', dunque, un processo profondo e globale che investe sia il messaggio cristiano, sia la riflessione e la prassi della chiesa. Ma è pure un processo difficile, perché non deve in alcun modo compromettere la specificità e l'integrità della fede cristiana. Per l'inculturazione la chiesa incarna il vangelo nelle diverse culture e, nello stesso tempo, introduce i popoli con le loro culture nella sua stessa comunità; trasmette a esse i propri valori, assumendo ciò che di buono c'è in esse e rinnovandole dall'interno. Da parte sua, con l'inculturazione la chiesa diventa segno più comprensibile di ciò che è e strumento più atto della missione. Grazie a questa azione nelle chiese locali, la stessa chiesa universale si arricchisce di espressioni e valori nei vari settori della vita cristiana, quali l'evangelizzazione, il culto, la teologia, la carità; conosce ed esprime ancor meglio il mistero di Cristo, mentre viene stimolata a un continuo rinnovamento. Questi temi, presenti nel concilio e nel magistero successivo, ho ripetutamente affrontato nelle mie visite pastorali alle giovani chiese. L'inculturazione è un cammino lento, che accompagna tutta la vita missionaria e chiama in causa i vari operatori della missione ad gentes, le comunità cristiane man mano che si sviluppano, i pastori che hanno la responsabilità di discernere e stimolare la sua attuazione.

53. I missionari, provenienti da altre chiese e paesi, devono inserirsi nel mondo socio-culturale di coloro ai quali sono mandati, superando i condizionamenti del proprio ambiente d'origine. Così devono imparare la lingua della regione in cui lavorano, conoscere le espressioni più significative di quella cultura, scoprendone i valori per diretta esperienza. Soltanto con questa conoscenza essi potranno portare ai popoli in maniera credibile e fruttuosa la conoscenza del mistero nascosto. (Rm 16,25; Ef 3,5). Per loro non si tratta certo di rinnegare la propria identità culturale, ma di comprendere, apprezzare, promuovere ed evangelizzare quella dell'ambiente in cui operano e, quindi, mettersi in grado di comunicare realmente con esso, assumendo uno stile di vita che sia segno di testimonianza evangelica e di solidarietà con la gente. Le comunità ecclesiali in formazione, ispirate dal vangelo, potranno esprimere progressivamente la propria esperienza cristiana in modi e forme originali, consone alle proprie tradizioni culturali, purché sempre in sintonia con le esigenze oggettive della stessa fede. A questo scopo, specie in ordine ai settori di inculturazione più delicati, le chiese particolari del medesimo territorio dovranno operare in comunione fra di loro e con tutta la chiesa, convinte che solo l'attenzione sia alla chiesa universale che alle chiese particolari le renderà capaci di tradurre il tesoro della fede nella legittima varietà delle sue espressioni. Perciò, i gruppi evangelizzati offriranno gli elementi per una "traduzione" del messaggio evangelico, tenendo presenti gli apporti positivi che si sono avuti nei secoli grazie al contatto del cristianesimo con le varie culture, ma senza dimenticare i pericoli di alterazioni che si sono a volte verificati.

54. In proposito, restano fondamentali alcune indicazioni. L'inculturazione nel suo retto processo dev'essere guidata da due principi: "La compatibilità col vangelo e la comunione con la chiesa universale". Custodi del "deposito della fede", i vescovi cureranno la fedeltà e, soprattutto, il discernimento, per il quale occorre un profondo equilibrio: c'è, infatti, il rischio di passare acriticamente da una specie di alienazione dalla cultura a una supervalutazione di essa, che è un prodotto dell'uomo, quindi è segnata dal peccato. Anch'essa dev'essere "purificata, elevata e perfezionata". Un tale processo ha bisogno di gradualità, in modo che sia veramente espressione dell'esperienza cristiana della comunità: "Occorrerà un'incubazione del mistero cristiano nel genio del vostro popolo - diceva Paolo VI a Kampala-, perché la sua voce nativa, più limpida e più franca, si innalzi armoniosa nel coro delle voci della chiesa universale". Infine l'inculturazione deve coinvolgere tutto il popolo di Dio, non solo alcuni esperti, poiché è noto che il popolo riflette quel genuino senso della fede che non bisogna mai perdere di vista. Essa va sì guidata e stimolata, ma non forzata, per non suscitare reazioni negative nei cristiani: dev'essere espressione di vita comunitaria, cio' maturare in seno alla comunità, e non frutto esclusivo di ricerche erudite. La salvaguardia dei valori tradizionali è effetto di una fede matura.

Il riferimento d'obbligo quando si parla di cultura in tali contesti, è al capitolo II della costituzione conciliare Gaudium et spes, "La promozione della cultura", e precisamente al n. 53 che ne costituisce l'introduzione.

53. E' proprio della persona umana il non poter raggiungere un livello di vita veramente e pienamente umano se non mediante la cultura, coltivando cioè i beni e i valori della natura. Perciò, ogniqualvolta si tratta della vita umana, natura e cultura sono quanto mai strettamente connesse.
Con il termine generico di " cultura " si vogliono indicare tutti quei mezzi con i quali l'uomo affina e sviluppa le molteplici capacità della sua anima e del suo corpo; procura di ridurre in suo potere il cosmo stesso con la conoscenza e il lavoro; rende più umana la vita sociale, sia nella famiglia che in tutta la società civile, mediante il progresso del costume e delle istituzioni; infine, con l'andar del tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni spirituali, affinché possano servire al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano.
Di conseguenza la cultura presenta necessariamente un aspetto storico e sociale e la voce "cultura" assume spesso un significato sociologico ed etnologico. In questo senso si parla di pluralità delle culture. Infatti dal diverso modo di far uso delle cose, di lavorare, di esprimersi, di praticare la religione e di formare i costumi, di fare le leggi e creare gli istituti giuridici, di sviluppare le scienze e le arti e di coltivare il bello, hanno origine i diversi stili di vita e le diverse scale di valori. Cosi dalle usanze tradizionali si forma il patrimonio proprio di ciascun gruppo umano. Così pure si costituisce l'ambiente storicamente definito in cui ogni uomo, di qualsiasi stirpe ed epoca, si inserisce, e da cui attinge i beni che gli consentono di promuovere la civiltà.

Tra le tante definizioni di cultura, più sintetiche, ne cito tre. La prima sarà oggetto di un approfondimento, sulla linea del pensiero del card. J. Ratzinger, esposto in alcune conferenze raccolte e pubblicate nel volume Fede verità tolleranza. Il Cristianesimo e le religioni del mondo, ed. Cantagalli, Siena 2003.

"Forma di espressione comunitaria, sviluppatasi storicamente, delle conoscenze e dei giudizi che caratterizzano la vita di una comunità" (Ratzinger).

"La cultura, o civiltà, intesa nel suo senso etnografico più ampio, è quell'insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo in quanto membro della società" (Tylor).

"Complesso di cognizioni, tradizioni, procedimenti tecnici, tipi di comportamento e sim. trasmessi e usati sistematicamente, caratteristico di un dato gruppo sociale, o di un popolo o di un gruppo di popoli o dell'intera umanità" (Zingarelli)

Va notato che sia il termine cultura che il vocabolo culto derivano dal medesimo verbo latino colere, "coltivare".
Il dato originario, di partenza dell'esperienza umana legato alla natura viene coltivato, condiviso e tramandato come patrimonio arricchito.
La coltivazione e la cura si estende poi ai comportamenti propri di una "cura verso la divinità" (il culto) tesi a mantenere e approfondire il legame con essa (religione).

3. FEDE E CULTURA

In tutte le culture storiche la religione è il centro determinante, ne è il cuore. Solo l'Europa dell'epoca moderna ha sviluppato un concetto di cultura che vuole prescindere dalla religione. E oggi, fatto nuovo, assistiamo all'espandersi di una cultura tecnico-scientifica priva di religione.
Una cultura è davvero a misura d'uomo se è aperta alle altre culture, poiché in ogni cultura è operante la medesima natura umana che tende ad una comprensione di sé sempre più vera e profonda.
"L'escludere tale apertura e tale interscambio è elemento di debolezza in una cultura, perché l'esclusione dell'altro è contraria per natura all'uomo" (J. Ratzinger, Fede verità tolleranza. Il Cristianesimo e le religioni del mondo, Siena 2003, p. 62.). "Cultura è la forma di espressione comunitaria, sviluppatasi storicamente, delle conoscenze e dei giudizi che caratterizzano la vita di una comunità" (J. Ratzinger, Fede verità tolleranza cit., ivi).
"Cultura" ha a che fare con conoscenza e valori nell'intento di comprendere il mondo e l'esistenza dell'uomo in esso, sotto la guida degli interessi fondamentali dell'esistenza stessa. Lo scopo è dunque pratico: come vivere in modo giusto in questo mondo cosìcché la propria esistenza riesca, sia felice.
Questa ricerca avviene insieme agli altri, richiede un ambito comunitario, dove possa ampliarsi e comunicarsi la conoscenza e realizzarsi la vita del singolo individuo. Tale conoscenza è aperta alla prassi, dunque comprensiva dei valori e della moralità. Ecco perché non può eludere la dimensione religiosa, il problema del divino a cui si rivolgono le domande ultime di senso.
La cultura inoltre ha a che fare con la storia, dal momento che la comunità lungo il procedere del tempo incontra nuove realtà, fa nuove esperienze, allarga le sue conoscenze. Questa assimilazione è avvenuta non solo per la cultura ebraica e per quella cristiana, protagoniste di una concezione lineare del tempo, ma in qualche misura anche per le culture statiche di orientamento cosmico, convinte della ciclicità del tempo e della immutabilità del cosmo.

L'incontro con altri soggetti culturali e con le loro esperienze porta una cultura ad un confronto, alla purificazione e al miglioramento, all'accoglienza del patrimonio altrui e al cambiamento del proprio. Questo processo è significativo in proporzione dell'apertura o della chiusura di un soggetto culturale, potenzialmente sempre attratto dal superamento dell'errore e dell'ignoranza.
Questo incontro delle culture tra loro, questo influsso reciproco, riguarda anche la fede. Infatti non esiste una fede "culturalmente spoglia" che incontri una cultura "religiosamente indifferente". Non esiste cioè una fede priva di cultura e neppure una cultura priva di religione. La moderna civiltà tecnica potrebbe costituire il primo caso di cultura chiusa in partenza al senso religioso, ma è pensabile che per quanto soffocato, questo possa germogliare inaspettatamente.

"Solo nella reciprocità di tutte le grandi creazioni culturali l'uomo si avvicina all'unità e alla totalità del suo essere" (J. Ratzinger, Fede verità tolleranza... cit. Siena 2003, p. 67) finché accanto all'uomo tecnologico vivranno uomini capaci di non abdicare alla propria cultura, il richiamo al superamento del limite angusto dell'immanenza potrà sempre avere trovare una eco e un ascolto nella profondità della coscienza umana.
Garante di questa speranza non è il fenomeno religioso in quanto tale, ma il senso religioso purificato da ogni alienazione. "Ha torto chi nelle religioni della terra vede solo idolatria deplorevole, ma ha torto pure chi vorrebbe valutare le religioni solo in termini positivi" (J. Ratzinger, Fede verità tolleranza... cit. p. 68) perché non tutte e non sempre esse sono luogo dell'incontro con la comune verità sull'uomo, su Dio e sulla realtà.

La vera sciagura dell'uomo è quella di essere all'oscuro della verità e la sua mortale debolezza è quella di sprofondare nel relativismo, chiudendosi in tal modo non solo all'incontro con i semi autentici di verità presenti nelle culture, ma soprattutto a quell'intervento dall'alto che è la Rivelazione, la cui verità non proviene da una determinata cultura ma dalla Verità stessa entrata nella storia e fattasi carne in un uomo concreto.

4. LA FEDE E' CULTURA

Grazie all'incarnazione si può affermare che la fede stessa è cultura. Così scrive Ratzinger nel testo citato (J. Ratzinger, Fede verità tolleranza... cit. pp. 70-74):
"Come prima cosa dobbiamo affermare che la fede stessa è cultura. Essa non esiste nuda, come mera religione. Già per il fatto che dice all'uomo chi egli sia e come debba attuare il suo essere-uomo, la fede crea cultura, è cultura. Quanto dice non è astratto, è maturato in una lunga storia e all'interno di molteplici fusioni interculturali in cui ha plasmato integralmente la forma della vita, il modo di trattare se stessi e il prossimo, il mondo e Dio.
La fede è essa stessa cultura. Questo significa pure che essa è un soggetto a sé: una comunità di vita e cultura che chiamiamo "popolo di Dio". Questo concetto evidenzia in maniera particolarmente chiara che la fede ha carattere di soggetto storico.
Dunque la fede si pone come un soggetto culturale fra altri tanto che si dovrebbe scegliere se appartenere a questo popolo come comunità culturale o appartenere a un altro popolo? No. Qui viene in luce l'aspetto del tutto particolare e specifico della cultura della fede. Il soggetto "popolo di Dio" si distanzia dai classici soggetti culturali definiti in base al lignaggio, all'etnia o ai confini costituiti da un comune ambio di vita, perché esso sussiste in diversi versi soggetti culturali che per parte loro non cessano messere, per il singolo cristiano, il soggetto primo e diretto della sua cultura.

Pure da cristiani si rimane francesi o tedeschi, americani o indiani e via dicendo. Anche nel mondo precristiano, nelle grandi culture dell'India, della Cina, del Giappone, vige l'identità e l'indivisibilità del soggetto culturale. In generale una doppia appartenenza è impossibile. Il buddhismo però costituisce un'eccezione, perché può congiungersi con altri soggetti culturali come loro dimensione interiore, per così dire. Ma, in maniera del tutto coerente, lo sdoppiamento si presenta soltanto nel cristianesimo, tanto che l'uomo vive in due soggetti culturali che si incontrano e si compenetrano in lui: nel suo storico e in quello nuovo della fede". (...)
"Se le cose stanno così, allora, nell'incontro tra la fede e la sua cultura con una cultura fino a quel momento a essa estranea, non si tratta di dissolvere questa dualità di soggetti culturali nell'una o nell'altra direzione. Tanto 1'abbandono del proprio retaggio culturale a favore di un cristianesimo senza concreta impronta umana, quanto lo scomparire della fisionomia culturale propria della fede nella nuova cultura, sarebbero errati. Proprio la tensione è feconda; rinnova la fede e risana la cultura. Di conseguenza sarebbe assurdo offrire un cristianesimo per così dire "pre-culturale" o "de-culturalizzato", che sarebbe destituito della forza storica che gli è propria e degradato a vuoto insieme di idee.

Non dovremmo dimenticare che già il cristianesimo del Nuovo Testamento porta in sé il frutto di un'intera storia culturale, una storia di accettazione e rifiuto, di incontro e trasformazione. La storia della fede di Israele, che con esso è superata, ha trovato la sua forma nella lotta con le culture egizia, hittita, sumerica, babilonese, persiana, greca. Tutte queste culture erano al tempo stesso religioni, grandi forme storiche di vita, che, nella lotta di Dio a fianco di Israele e nella lotta delle sue grandi figure profetiche, non senza sofferenza furono accolte e trasformate per predisporre un ricettacolo sempre più puro per la novità della Rivelazione dell'unico Dio; ma proprio così quelle culture conseguirono anche il loro definitivo compimento. Sarebbero sprofondate tutte nel passato remoto, se non fossero state purificate ed elevate e non fossero rimaste presenti nella fede della Bibbia.
Certo, la storia d'Israele comincia con la chiamata di Abramo: "Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre" (Gn 12,11) ; essa comincia con una frattura culturale. All'inizio di un'ora nuova della storia della fede c'è sempre una frattura simile con la propria storia precedente, un distacco del genere. Questo nuovo inizio, però, dimostra di essere poi una forza di risanamento, che crea un nuovo centro di attrazione che è in grado di attirare a sé tutto quel che è veramente conforme all'uomo e che è veramente conforme a Dio. "Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me" (Gv 12,32) - questa parola che riguarda il Signore elevato conviene anche al nostro contesto: la croce è dapprima frattura, rigetto, essere innalzato da terra, ma proprio così essa diviene il nuovo punto di gravitazione (che attira verso l'alto) della storia del mondo, diviene raccolta di ciò che era disperso.

Chi entra nella Chiesa deve avere coscienza di entrare in un vero e proprio soggetto culturale, con una propria interculturalità storicamente sviluppatasi e stratificatasi. Senza una sorta di esodo, senza una svolta radicale della vita a tutti i livelli non si può diventare cristiani. La fede in effetti non è una via privata verso Dio; essa porta dentro il popolo di Dio e la sua storia. Dio ha legato se stesso a una storia, che ora è anche la sua e da cui non possiamo staccarci. Cristo rimane uomo per l'eternità, mantiene un corpo in eterno; essere uomo ed essere corpo però implicano storia e cultura, questa storia del tutto particolare, con la sua cultura, ci piaccia o no. Noi non possiamo ripetere a nostro piacimento il processo dell'incarnazione nel senso di togliere continuamente a Cristo la sua carne e di offrirgliene in cambio un'altra.
Cristo rimane se stesso, anche quanto al suo corpo. Tuttavia ci attira a sé. Questo significa che, non essendo il popolo di Dio una struttura culturale particolare, ma essendo radunato da tutti i popoli, anche la primitiva identità, risorgendo dalla frattura, trova posto in esso; non solo, essa è necessaria per far giungere l'incarnazione di Cristo, del Logos, alla sua totale pienezza. La tensione dei molti soggetti entro un unico soggetto appartiene per natura sua al dramma mai concluso dell'incarnazione del Figlio. E' questa la vera dinamica della storia e sta sempre sotto il segno della croce, vale a dire ha sempre da combattere con la forza di gravità opposta della chiusura e del rifiuto".

5. LEGITTIME DIVERSITA'

Come abbiamo visto, delle cinque istruzioni applicative della Sacrosanctum Concilium, la quarta, intitolata Varietates legitimae, fu pubblicata il 25 gennaio 1994 dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, a firma del cardinale prefetto Antonio M. Card. Javierre Ortas. Essa affronta il tema della Liturgia romana e della inculturazione.
Vengono qui di seguito riportati i passaggi fondamentali del testo, rimandando alla lettura diretta e integrale del documento soprattutto per quanto riguarda gli aspetti strettamente giuridici e disciplinari dell'argomento, nonché le norme procedurali per la sua attuazione.

Nella Premessa leggiamo:
"Nel Rito romano sono state ammesse nel passato Legittime diversità ed ancora esse sono previste dal Concilio Vaticano II, nella Costituzione Sacrosanctum Concilium, soprattutto nelle Missioni. La Chiesa, in quelle cose che non toccano la fede o il bene di tutta la comunità, non desidera imporre, neppure nella liturgia, una rigida uniformità". Avendo conosciuto e conoscendo ancora una diversità di forme e di famiglie liturgiche, ritiene che questa diversità, lungi dal nuocere alla sua unità, la valorizza".
La Costituzione Sacrosanctum Concilium ha parlato di adattamento della liturgia indicandone alcune forme. In seguito, il magistero della Chiesa ha utilizzato il termine "inculturazione" per designare in modo più preciso "l'incarnazione del Vangelo nelle culture autoctone e nello stesso tempo l'introduzione di queste culture nella vita della Chiesa". "L'inculturazione significa un'intima trasformazione degli autentici valori culturali attraverso la loro integrazione nel cristianesimo e il radicamento del cristianesimo nelle differenti culture".
Si comprende quindi il cambiamento di vocabolario, anche nel campo liturgico. Il termine "adattamento", ripreso dal linguaggio missionario, poteva far pensare a dei cambiamenti soprattutto di punti singoli ed esteriori. Il termine "inculturazione" può meglio servire ad indicare un duplice movimento: "Attraverso l'inculturazione, la Chiesa incarna il Vangelo nelle diverse culture e, nel contempo, introduce i popoli con le loro culture nella propria comunità".
Da una parte la penetrazione del Vangelo in un dato ambiente socioculturale "feconda come dall'interno, fortifica, completa e restaura in Cristo le qualità dello spirito e le doti di ciascun popolo". Dall'altra parte, la Chiesa assimila questi valori, nel caso essi siano compatibili con il Vangelo, "per approfondire l'annuncio di Cristo e per meglio esprimerlo nella celebrazione liturgica e nella vita multiforme della comunità dei fedeli". Questo duplice movimento operante nell'inculturazione esprime così una delle componenti del mistero dell'Incarnazione.

IL PROCESSO D'INCULTURAZIONE NELLA STORIA DELLA SALVEZZA

"In tutta la sua lunga storia, Israele ha conservato la certezza di essere il popolo scelto da Dio, testimone della sua azione e del suo amore in mezzo alle nazioni. Se dai popoli vicini ha ripreso certe forme di culto, la fede nel Dio di Abramo, d'Isacco e di Giacobbe vi ha tuttavia impresso dei cambiamenti profondi, primariamente di senso e spesso di forma, al fine di celebrare il memoriale delle grandi opere di Dio nella sua storia, incorporando tali elementi nella propria pratica religiosa.
L'incontro del mondo giudaico con la sapienza greca diede luogo ad una nuova forma d'inculturazione: la traduzione della Bibbia in greco ha introdotto la parola di Dio in un mondo che le era chiuso ed ha suscitato, sotto l'ispirazione divina, un arricchimento delle Scritture.
Venendo sulla terra, il Figlio di Dio "nato da donna, nato sotto la legge" (Gal 4,4), si è legato alle condizioni sociali e culturali degli uomini con cui ha vissuto e pregato. Facendosi uomo, ha assunto un popolo, un paese e un'epoca, ma in virtù della comune natura umana, "in certo modo, si è così unito ad ogni uomo". Infatti,"noi siamo tutti in Cristo e la comune nostra natura umana rivive in lui. Per ciò egli è chiamato il nuovo Adamo".

15. Riunendosi per spezzare il pane nel primo giorno della settimana, che diventa il giorno del Signore (cfr. At 20,7: Ap 1.10). le prime comunità cristiane hanno seguito il comando di Gesù che, nel contesto del memoriale della Pasqua giudaica, istituì il memoriale della sua Passione. Nella continuità dell'unica storia della salvezza, esse hanno ripreso spontaneamente forme e testi del culto giudaico, adattandoli in modo da esprimere la novità radicale del culto cristiano. Sotto la guida dello Spirito Santo si è operato un discernimento tra ciò che poteva o doveva essere custodito o meno dell'eredità cultuale giudaica.
La diffusione del Vangelo nel mondo ha portato al sorgere di altre forme rituali nelle Chiese provenienti dal paganesimo, sotto l'influsso di diverse tradizioni culturali. Sempre sotto la guida dello Spirito Santo, negli elementi derivanti dalle culture "pagane" si è operato un discernimento tra ciò che era incompatibile con il cristianesimo e ciò che poteva essere assunto, in armonia con la tradizione apostolica, nella fedeltà al Vangelo della salvezza.

18. Nel nostro tempo, il Concilio Vaticano II ha ricordato che la Chiesa "favorisce e accoglie tutte le risorse, le ricchezze e le consuetudini dei popoli, nella misura in cui sono buone, e accogliendole le purifica. le consolida e le eleva". (...) Così la liturgia della Chiesa non dev'essere estranea a nessun paese, a nessun popolo, a nessuna persona, e nel medesimo tempo essa trascende ogni particolarismo di razza o di nazione. Essa deve essere capace di esprimersi in ogni cultura umana, mantenendo inalterata la propria identità, fedele
alla tradizione ricevuta dal Signore.

19. La liturgia, come il Vangelo, deve rispettare le culture, ma al contempo le invita a purificarsi e a santificarsi. Aderendo a Cristo per la fede, i Giudei sanno che, mediante il suo sacrificio unico e perfetto, egli è il vero Sommo Sacerdote e il Tempio definitivo. Immediatamente si relativizzano prescrizioni come la circoncisione, il sabato e i sacrifici del tempio. In modo più radicale, i cristiani venuti dal paganesimo hanno dovuto, aderendo a Cristo, rinunciare agli idoli, alle mitologie, alle superstizioni.

20. La sfida per i primi cristiani, avvertita in modo diverso e con ragioni differenti a seconda se provenivano dal popolo eletto o erano originari del paganesimo, fu di conciliare le rinunce imposte dalla fede in Cristo con la fedeltà alla cultura e alle tradizioni del popolo a cui appartenevano. Tale è anche la sfida per i cristiani di ogni tempo.

ESIGENZE E CONDIZIONI PRELIMINARI PER L'INCULTURAZIONE LITURGICA

Prima di ogni ricerca di inculturazione, va tenuta presente la natura stessa della liturgia che è intimamente legata alla natura della Chiesa, al punto che è soprattutto nella liturgia che si manifesta la natura della Chiesa. La Chiesa non si costituisce per decisione umana, ma è convocata da Dio nello Spirito Santo e risponde nella fede al suo appello gratuito e, poiché cattolica, essa è chiamata a raccogliere tutti gli uomini, a parlare ogni lingua, a permeare ogni cultura.

23. La Chiesa si nutre della parola di Dio, consegnata per iscritto nell'Antico e nel Nuovo Testamento. Nella celebrazione della liturgia, la parola di Dio ha dunque una importanza massima di modo che la sacra Scrittura non può essere sostituita con nessun altro testo, per quanto venerabile esso sia. Ugualmente, la Bibbia fornisce alla liturgia l'essenziale del suo linguaggio, dei suoi segni e della sua preghiera specialmente nei Salmi.

25. L'intera vita liturgica s'impernia sul sacrificio Eucaristico innanzitutto e sugli altri sacramenti, affidati da Cristo alla sua Chiesa che ha il dovere di trasmetterli fedelmente ad ogni generazione con sollecitudine. In virtù della sua autorità pastorale, essa può disporre ciò che può essere utile al bene dei fedeli, secondo le circostanze, i tempi e i luoghi. Ma non ha nessun potere su ciò che dipende dalla stessa volontà di Cristo e che costituisce la parte immutabile della liturgia. Intaccare il legame che i sacramenti hanno con Cristo che li ha istituiti, e con gli atti fondanti della Chiesa, non sarebbe più inculturarli, ma svuotarli della loro sostanza.

26. Ogni Chiesa particolare deve essere in accordo con la Chiesa universale non soltanto sulla dottrina della fede e sui segni sacramentali, ma anche sugli usi ricevuti universalmente dall'ininterrotta tradizione apostolica. E' il caso della preghiera quotidiana, della santificazione della domenica, del ritmo settimanale, della Pasqua e della presentazione dell'intero mistero di Cristo lungo l'anno liturgico, della pratica della penitenza e del digiuno, dei sacramenti dell'iniziazione cristiana, della celebrazione del memoriale del Signore e del rapporto tra liturgia della parola e liturgia eucaristica, della remissione dei peccati, del ministero ordinato, del matrimonio, dell'unzione dei malati.

28. La tradizione missionaria della Chiesa si è sempre preoccupata di evangelizzare gli uomini nella loro lingua. Spesso è successo che furono proprio i primi evangelizzatori di un paese a fissare per iscritto le lingue trasmesse fino ad allora soltanto oralmente. E a buon diritto, poiché è attraverso la lingua materna, veicolo della mentalità e della cultura, che è possibile raggiungere l'anima di un popolo, suscitare in esso lo spirito cristiano, permettergli una partecipazione più profonda alla preghiera della Chiesa.

PRINCIPI E NORME PRATICHE PER L'INCULTURAZIONE DEL RITO ROMANO

Principi generali: per la ricerca e l'attuazione dell'inculturazione del Rito romano, si deve tener presente:
1. la finalità inerente all'opera di inculturazione;
2. l'unità sostanziale del Rito romano;
3. l'autorità competente.

39. Nelle celebrazioni liturgiche, il linguaggio, principale mezzo per gli uomini di comunicare tra loro, ha come scopo di annunciare ai fedeli la buona notizia della salvezza e di esprimere la preghiera che la Chiesa rivolge al Signore. Esso deve, quindi, rivelare sempre, insieme alla verità di fede, la grandezza e la santità dei misteri celebrati.
Si dovrà dunque esaminare con attenzione quali elementi del linguaggio di un popolo possono convenientemente essere introdotti nelle celebrazioni liturgiche e, in particolare, se è opportuno o invece controindicato l'impiego di espressioni provenienti da religioni non cristiane. Sarà ugualmente importante tener conto dei diversi generi letterari usati nella liturgia: testi biblici proclamati, preghiere presidenziali, salmodia, acclamazioni, ritornelli, responsori, versetti, inni, preghiera litanica.

40. La musica e il canto, espressioni dell'animo di un popolo, hanno un posto di rilievo nella liturgia. Si deve dunque favorire il canto, in primo luogo dei testi liturgici, affinché le voci dei fedeli possano farsi sentire nelle stesse azioni liturgiche. "In alcune regioni, specialmente nelle Missioni, si trovano popoli con una propria tradizione musicale, la quale ha grande importanza nella loro vita religiosa e sociale. A questa musica si dia la dovuta stima e il posto conveniente, tanto nella educazione del senso religioso di quei popoli, quanto nell'adattare il culto alla loro indole".
Si dovrà essere attenti al fatto che un testo cantato si imprime più profondamente nella memoria di un testo letto, e ciò domanda di essere esigenti sull'ispirazione biblica e liturgica e sulla qualità letteraria dei testi del canto.
Si potranno ammettere nel culto divino le forme musicali, i motivi, gli strumenti musicali "purché siano adatti all'uso sacro o vi si possano adattare, convengano alla dignità del tempio e favoriscano veramente l'edificazione dei fedeli".

42. Presso alcuni popoli, il canto si accompagna istintivamente al battito delle mani, al movimento ritmico del corpo o a movimenti di danza dei partecipanti. Tali forme di espressione corporale possono aver il loro posto nell'azione liturgica di questi popoli, a condizione che esse siano sempre espressione di una vera preghiera comune di adorazione, di lode, di offerta o di supplica e non semplicemente spettacolo.

43. La celebrazione liturgica è arricchita dall'apporto dell'arte, che aiuta i fedeli a celebrare, ad incontrare Dio, a pregare. Anche l'arte deve avere nella Chiesa di ogni popolo e nazione libertà di espressione, atteso che concorra alla bellezza degli edifici e dei riti liturgici, con il rispetto e l'onore che sono ad essi dovuti e che sia davvero significativa nella vita e nella tradizione del popolo. Lo stesso dicasi per la forma, la disposizione e la decorazione dell'altare, per il luogo della proclamazione della parola di Dio e per quello del battesimo, per l'arredamento, i vasi, le vesti ed i colori liturgici. Si darà la preferenza a materie, forme e colori familiari nel paese.

45. Accanto alle celebrazioni liturgiche e in connessione con esse, nelle varie Chiese particolari si trovano diverse espressioni di pietà popolare. Talora introdotte dai missionari al tempo della prima evangelizzazione, si sviluppano sovente secondo i costumi locali.
L'introduzione di pratiche devozionali nelle celebrazioni liturgiche non può essere ammessa come forma d'inculturazione "data la sua natura (della liturgia) di gran lunga superiore".

47. Poiché la liturgia è espressione della fede e della vita cristiana, occorre vigilare che la sua inculturazione non sia segnata, neppure in apparenza, dal sincretismo religioso. Ciò potrebbe accadere se i luoghi, gli oggetti di culto, le vesti liturgiche, i gesti e gli atteggiamenti lasciassero supporre che, nelle celebrazioni cristiane, certi riti abbiano i medesimi significati di prima dell'evangelizzazione. Il sincretismo sarebbe ancora peggiore se si pretendesse di sostituire letture e canti biblici (cfr. sopra, n. 23) o preghiere con testi mutuati da altre religioni, quand'anche essi possiedano un innegabile valore religioso e morale.

L'AMBITO DEGLI ADATTAMENTI NEL RITO ROMANO

Anche se tutti i popoli, compresi i più semplici, hanno un linguaggio religioso adatto ad esprimere la preghiera, il linguaggio liturgico ha delle caratteristiche proprie: è impregnato profondamente della sacra Scrittura; certe parole del latino corrente (memoria- sacramentum) hanno assunto un altro senso per l'espressione della fede cristiana; certi termini del linguaggio cristiano possono trasmettersi da una lingua all'altra, come avvenuto nel passato, ad esempio per: ecclesia, evangelium, baptisma, eucharistia.

54. Per la celebrazione eucaristica, il Messale Romano, pur nell'accoglienza di "legittime varietà e adattamenti, secondo le norme del Concilio Vaticano Il", deve restare un "mezzo per testimoniare e affermare l'unità" del Rito romano nella diversità delle lingue.

57. Il Rituale del matrimonio è quello che richiede, in numerosi paesi, il più grande adattamento per non essere estraneo ai costumi sociali. Perciò ogni Conferenza episcopale ha la facoltà di preparare un rito proprio per il matrimonio, che si addica ai costumi dei luoghi e delle popolazioni; tuttavia deve restare ferma la norma secondo la quale il ministro ordinato o laico che assiste, a seconda del caso, deve richiedere e ricevere il consenso dei contraenti, e che sia impartita agli sposi la benedizione nuziale. Questo rito proprio dovrà, senza dubbio, esprimere chiaramente il senso cristiano del matrimonio così come la grazia del sacramento e sottolineare i doveri degli sposi.

58. In ogni tempo e presso tutti i popoli, i funerali sono stati caratterizzati da riti particolari, spesso altamente espressivi. Per rispondere alle situazioni dei diversi paesi, il Rituale romano propone tre tipi o schemi differenti per i funerali. Spetta alle Conferenze episcopali scegliere quello che meglio corrisponde agli usi locali. Conservando volentieri tutto ciò che di buono si trova nelle tradizioni familiari e nei costumi locali, esse veglieranno a che le esequie manifestino la fede pasquale e testimonino veramente lo spirito evangelico. E in questa prospettiva che i Rituali dei funerali possono adottare i costumi delle diverse culture e rispondere meglio alle situazioni ed alle tradizioni di ciascuna regione.

Il documento indica a questo punto le procedure da seguire per gli adattamenti previsti nei libri liturgici e nell'applicazione dell'art. 40 della Costituzione conciliare sulla sacra Liturgia, per poi giungere alla sua Conclusione, con il paragrafo n. 70 qui di seguito riportato.

70. Presentando alle Conferenze episcopali le norme pratiche che devono guidare il lavoro di inculturazione liturgica previsto dal Concilio Vaticano Il per rispondere alle necessità pastorali dei popoli di culture diverse e inserendolo attentamente in una pastorale d'insieme per inculturare il Vangelo nella varietà delle realtà umane, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti confida che ciascuna Chiesa particolare e soprattutto le giovani Chiese potranno sperimentare che la diversità di certi elementi nella celebrazione liturgica può essere fonte di arricchimento, nel rispetto dell'unità sostanziale del Rito romano, dell'unità di tutta la Chiesa e dell'integrità della fede "trasmessa ai credenti una volta per tutte" (Gd 3).


La presente Istruzione è stata preparata dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti
per mandato di Sua Santità il Papa Giovanni Paolo II che l'ha approvata e ha ordinato che sia pubblicata.

Dalla Sede della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, il 25 gennaio 1994.
Antonio M. Card. Javierre Ortas Prefetto, Geraldo M. Agnelo Segretario.



CONCLUSIONE

Col testo della Varietates legitimae abbiamo da ormai vent'anni un quadro di riferimento completo e dettagliato circa i principi, gli obiettivi, i mezzi e i metodi che devono guidare ad una feconda inculturazione della Liturgia cattolica, o meglio ancora - per seguire il linguaggio del teologo Ratzinger - ad un incontro stimolante e fecondo tra la Liturgia del popolo di Dio quale è venuta strutturandosi in questi duemila anni e le espressioni rituali presenti nelle tradizione religiose dei popoli che attendono la nuova evangelizzazione.

"Ti adoreranno signore tutti i popoli della terra": il responsorio declamato nella solennità dell'Epifania è atto di fede ed implorazione, è fiducia sulla promessa di Gesù che saluta i suoi, anche quelli offuscati dal dubbio.
"Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: "A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo"" (Mt 28, 16-20).

Per tutti i popoli, tutti i giorni, è possibile quell'incontro decisivo che non li espropria, ma valorizza e arricchisce il loro patrimonio culturale rendendoli protagonisti nel cammino verso il completamento dell'incarnazione di Cristo nella storia attraverso il suo corpo che è la Chiesa.







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