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Walter Amaducci: Conferenze



Luigi Novarese



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Cesena, palazzo del Ridotto
19 maggio 2012

«Viaggiatore dello spirito che cura anche il corpo»


Tavola rotonda in prossimità della beatificazione di mons. Luigi Novarese

Contributo di mons. Walter Amaducci



Ho pensato di dare al mio intervento il taglio della testimonianza, cioè del racconto di quello che è successo a me, grazie all’incontro con la persona e l’opera di mons. Luigi Novarese.
Cercherò ugualmente di cogliere alcune implicanze di carattere pastorale tenendo conto di quello che già si sta facendo, ma auspicando anche qualche passo in avanti soprattutto per quegli obiettivi che non hanno bisogno di ulteriori chiarimenti in quanto sono di una evidenza disarmante.


MONSIGNOR LUIGI NOVARESE


Da martedì 22 a lunedì 28 agosto del 1967 presi parte agli esercizi spirituali a Re con un gruppo di ammalati. Ero alla vigilia della seconda liceo classico al seminario regionale di Bologna, e stavo per compiere 17 anni. Andai su proposta del rettore diocesano don Marino Montalti, insieme ad un compagno di scuola e di seminario, Lorenzo Buda, che oggi è monaco nella Piccola famiglia della Risurrezione e si trova in India. Eravamo compagni di scuola dalla prima media, lo saremmo stati per altri quattro anni a Bologna, poi nel 1971 le nostre strade si separarono appena terminati i due anni di propedeutica alla Teologia. Lorenzo lasciò il seminario, si iscrisse a scienze politiche, si fidanzò mentre io mi trasferii a Roma dove mi iscrissi alla pontificia università Gregoriana, alunno di quel Collegio Capranica che aveva accolto Novarese nel 1935. Io fui ordinato prete il 25 settembre 1976 e tredici anni dopo, il 28 agosto 1989 anche Lorenzo avrebbe ricevuto l’Ordinazione. Due ordinati di un gruppo di trenta ragazzi partiti insieme nel 1961.
Fu a Re, nella Valle Vigezzo orientale in provincia di Novara, che conobbi Mons. Novarese. In quel paesino, a 710 metri di altitudine, dal 1960 c’è una casa di Esercizi Spirituali per ammalati "Casa Sacro Cuore Immacolato di Maria" che accoglie gruppi di malati provenienti da ogni parte d’Italia. Erano stati i malati stessi a volerla, a conclusione degli esercizi per loro svoltisi ad Oropa. Era stata inaugurata il 24 maggio1960, dopo otto anni di lavori e di massicci interventi della Provvidenza. Era la prima casa di esercizi spirituali, al mondo, per i malati, iniziata in quello stesso anno 1952, in cui Novarese aveva fondato, con lo scopo di rendere più efficiente l’accompagnamento agli infermi, i Fratelli e Sorelle degli ammalati. Conobbi i silenziosi operai della Croce che mi rimasero impressi per i gesti misurati nello stile eppure straordinari sia nel contenuto che nella forma, come il gesto di baciare il pavimento quando entravano in chiesa.
Mons. Novarese era affiancato da don Remigio Fusi e da don Mario Veronese, gracile e delicato il primo, pratico e dinamico il secondo, molto simile, nel ricordo che ne conservo allo stesso Novarese, un uomo dai tratti spicci, persino rudi, con tutti, a cominciare dai malati. Quei malati venivano trattati senza riguardi particolari, non solo senza commiserazione ma quasi senza tatto. Confesso che rimasi un po’ sconcertato, pur intuendo che quella doveva essere una scelta ben ponderata e collaudata.
Claudicante per i postumi della grave malattia avuta da piccolo, quella coxite o tubercolosi ossea di cui tutti sappiamo, Novarese si muoveva comunque rapido, deciso, dando l’impressione di avere davvero poco tempo da perdere. Dire che il clima di fede era palpabile è ancora troppo poco: si tagliava a fette.
La concretezza di fede in quell’ambiente faceva un tutt’uno con i corpi delle persone, con le pareti della casa, col mobilio, con le barelle e le carrozzine… Mi si rivelò in maniera stupefacente quando un malato piccolissimo di statura (veniva posto a parlare con la seggiolina sul tavolo) venne incaricato da don Mario di un’incombenza: chiedere alla Madonna un aiuto urgente. Non mi ricordo di che cosa si trattasse, ma rivedo la scena: il prete gli parlò rallentando appena il passo, senza neppure fermarsi. E quello si fece portare davanti alla statua e le cominciò a parlare con la naturalezza di chi si rivolge ad uno del personale della casa: la direttrice, la portiera, la cameriera.
Tornai a casa abbonato a L’Ancora, il periodico dell’associazione, piccolo come un quadernetto, Fratello degli ammalati con tanto di adesione formale.
Ero molto fervoroso, forse anche troppo, alla ricerca di qualche malato da aiutare a scoprire la propria vocazione, un po’ come lo scout che si guarda ansioso attorno per trovare qualcuno da investire con la sua buona azione giornaliera. L’estate seguente andai a Loreto con l’Unitalsi (dal 17 al 20 settembre 1968).
Quattordici anni dopo sono tornato a Re, dal 27 giugno al 3 luglio 1981, dopo aver proposto in parrocchia l’esperienza, con due ragazze e il padre di una di loro, a servizio della casa per i lavori più disparati. Mancavano ancora tre anni alla morte di mons. Novarese che sarebbe avvenuta a Rocca Priora (RM) il 20 luglio 1984.


FRATELLI DEGLI AMMALATI


Il 13 ottobre del 2009 è nata a San Pietro, dopo dieci anni dal mio ingresso come parroco, una iniziativa riguardante i malati.
Nel pomeriggio, durante la riunione della S. Vincenzo, ci eravamo soffermati sull’identità dell’associazione CVS che esiste a Cesena dal 1967. Erano le 15,30 e appena un’ora prima, in casa di Silvia, dopo avere amministrato il sacramento dell’Unzione degli infermi a questa donna affetta da SLA (sclerosi laterale amiotrofica), mi ero reso conto che lei, insieme ad altri ammalati, stava vivendo pienamente il suo apostolato nella preghiera di intercessione e nell’offerta della sua sofferenza a Dio per il bene di tanti.
Nell’incontro serale a S. Stefano, indetto dalla nostra Unità Pastorale, erano presenti molte persone di San Pietro, attivamente impegnate accanto a malati e anziani, veri «fratelli degli ammalati» anche se forse a tanti di loro non era mai venuta in mente di applicare a sé questa denominazione.
Ci venne presentata la realtà del CVS, che per alcuni fu una novità, per altri una riscoperta o un approfondimento.
Alla fine dell’incontro, introducendo la preghiera dell’Ave Maria, richiamai l’unico atteggiamento realmente adeguato agli appelli di Dio, quello dell’eccomi, proprio di Maria, sottolineando come la sua presenza e la devozione a lei siano una costante dell’apostolato dei, con e per i malati.
Poco dopo, tornato a casa, pensai che si stava concludendo una giornata davvero particolare e mi ricordai che era il 13 ottobre, il giorno dell’ultima apparizione della Madonna ai tre pastorelli di Fatima.
Fu come se avvertissi una sorta di richiamo «vocazionale» a farmi a tutti gli effetti promotore di quell’esperienza ecclesiale che riconosce al malato il suo ruolo di protagonista e non solo di destinatario dell’animazione spirituale e dell’azione pastorale della comunità parrocchiale e di tutta la Chiesa.
Il giorno dopo (14 ottobre 2009) scrissi una lettera ad un certo numero di persone della parrocchia raccontando queste cose e auspicando che a san Pietro si formasse un drappello di uomini e donne, di «Fratelli degli ammalati» che consentissero di aprire, accanto alle tante altre strade di carità già in atto nella nostra parrocchia, anche questa via di santificazione per tutti, malati e sani, che desse visibilità e consapevolezza a ciò che in realtà esisteva già, almeno per alcuni, ed era da tempo uno stile quotidiano.
A chi pensava di poterci stare chiedevo una risposta, una risposta totalmente libera, pienamente convinta, anzi entusiasta.
Risposero in una quindicina, un gruppo che abbiamo chiamato “Fratelli degli ammalati” (con le virgolette d’obbligo: non fa parte del CVS, almeno per ora, ma è chiaro che a Novarese e al CVS deve la sua ispirazione). Gli aderenti erano già impegnati in qualche modo accanto a malati ed anziani. Si voleva perfezionare quella sensibilità che, come si diceva, «riconosce al malato il ruolo di protagonista e non solo di destinatario dell’azione spirituale e pastorale».
Uno dei compiti che il gruppo si è assunto è quello di promuovere momenti di preghiera per affidare a Dio le intenzioni che varie persone richiedono. Dall’11 novembre 2011 all’altare della Madonna è stata posta una cassettina entro la quale, chi lo desidera, può deporre la sua intenzione di preghiera. I membri del gruppo “Fratelli degli ammalati” pregano unitamente alle persone sofferenti e ogni primo venerdì del mese partecipano alla S. Messa delle ore 18.30 durante la quale affidano a Dio le varie intenzioni. A questo momento liturgico sono invitati anche gli altri operatori pastorali della parrocchia.
In quel medesimo giorno il parroco, che porta l’Eucaristia ad una ventina di malati, consegna anche a vari di loro un foglio dove sono state trascritte tutte le richieste di preghiera del mese precedente.


PASTORALE INTEGRATA


Ma a questo punto è opportuno fare un passo indietro. Come può un malato scoprire la sua vocazione da protagonista? Grazie a qualcuno che riesce ad andare oltre la sua vicinanza caritatevole, oltre la compagnia di sostegno non estemporanea, oltre la pastorale di carità tradizionale legata alla quarta opera di misericordia, visitare gli infermi: «ero malato e siete venuti a visitarmi». Ma per andare oltre occorre esserci, bisogna essere là.
Allora questa «pastorale della sanità» come viene chiamata (se la dicitura fosse pastorale dei malati oppure pastorale della sofferenza forse sarebbe ancor più semplice e schietta) a che punto è, come sta di salute?
Considerate le tre aree sulle quali essa si muove (malati in casa, ospedali e cliniche, case di riposo) credo che tutti, vescovi, sacerdoti, religiosi e laici si sentano tremare vene e polsi per l’ampiezza del campo di lavoro.
Quando si parla di pastorale d’ambiente e di conseguenza di pastorale integrata, in riferimento a quella territoriale legata principalmente alla struttura della parrocchia, è d’obbligo citare la scuola, il lavoro, la sanità e il tempo libero.
Il mondo della fragilità – come da Verona in poi siamo soliti dire – pare estendersi a macchia d’olio, non solo per l’innalzamento dell’età media e delle aspettative di vita (con una schiera crescente di anziani non più autosufficienti) ma anche per la crescente debolezza psicologica e morale provocata in tanti dal crollo o dall’appannamento delle certezze e dei grandi valori, sia nell’orizzonte del presente che nella prospettiva del futuro.
Gli operatori pastorali dediti a questa missione non si improvvisano. Eppure nell’ottica della nuova evangelizzazione, della catechesi occasionale e della testimonianza di vita è facile osservare come qui non si tratti solo di raggiungere destinatari ben definiti – malati e anziani – ma insieme a loro e attraverso loro, le famiglie, quelle famiglie che sempre meno rispetto al passato, diventano interlocutrici della comunità cristiana in vista dell’educazione alla fede dei figli, semplicemente perché i bambini in tante case non ci sono più, ma – cosa ben più grave – perché troppi stanno pensando e teorizzando una società alla cui base stanno delle cosiddette famiglie che tali non sono, o semplicemente dei singoli.
Ma superando la dimensione quantitativa è ancora più stimolante e provocatorio il livello di domanda a cui ci si pone, che non fa sconti: il senso del vivere, il valore della persona umana, la riuscita di una vita, la morte e il dopo morte: domande che possono anche non entrare espressamente nei discorsi e nelle conversazioni, ma che rivelano inevitabilmente nelle scelte e nei fatti a quale risposta o ipotesi di risposta si sta dando credito e fiducia.
Ci vuole la cappellania ospedaliera, certo, nuove adesioni ad associazioni come il CVS e l’Unitalsi, una ministerialità laicale ramificata e strutturale, ma ancor di più uno stile pastorale che faccia dei piccoli secondo il vangelo i primi commensali alla tavola della comunità cristiana.
Va spronato l’impegno di tutti e a tutti i livelli, a cominciare da quello culturale e politico, per l’inserimento nella vita della società secondo la dignità di ognuno.
Esistono carte dei diritti del malato scritte e pubblicate, ma viene prima ancora quella scritta da Dio e mostrata da Gesù. Esiste un sacramento, quello dell’Unzione dei malati che è un segno efficace della grazia ma anche un paradigma di mentalità.
Quale mentalità? «Senza di me non potete far nulla». Allora anche per gli altri sacramenti occorrerà garantire un percorso che non tagli fuori, possibilmente nessuno (sacramenti dell’iniziazione cristiana) e una pastorale che elimini le barriere architettoniche morali circa la catechesi, la liturgia, la vita ecclesiale, la dimensione missionaria, l’aiuto per una presenza attiva nel corpo sociale.
Presenza attiva anche nella battaglia per la civiltà: e non mi riferisco ai cosiddetti «diritti civili», espressione che solitamente indica obiettivi penosi se non disumani, mentre quelli veramente umani ormai sembrano riservati solo agli animali. Fare una «vita da cane» oggi in Italia è un privilegio vero e proprio!
Una mentalità che tenga per certo che non esiste un uomo mezzo morto. O è vivo o è morto. Come non esiste un «pre-uomo»: o c’è un uomo o non c’è. Dal concepimento l’uomo c’è. «Ma non si capisce bene…». Allora cerca di capire! Non si capisce se è un ciottolo o un diamante grezzo? Ma se anche pare un sassolino e mi sfiora il dubbio io cerco di capire e intanto sto dalla parte del sicuro: non lo butto via!
Una mentalità il cui primo pensiero e il primo impegno sono quelli per la guarigione fisica. Fino a chiedere il miracolo. Contemporaneamente – non dopo, ma intanto – si attiva la «cura per il sollievo» che potrebbe restare anche l’unica (la medicina palliativa) e l’annuncio evangelico della corredenzione: lo spirito che cura il corpo fin là dove solo la fede riesce ad arrivare.
Una mentalità che passi dal carisma al ministero. Non ogni carisma è destinato a diventare ministero, ma tanti sì, con risvolti di carattere organizzativo, progettuale e strutturale destinati a coinvolgere diocesi, parrocchie, strutture pastorali territoriali, associazionismo, luoghi e comunità religiose.
Penso al Novarese a cui papa Giovanni affida l’incarico di curare l’assistenza religiosa degli ospedali italiani (1962) o all’altro incarico ricevuto dalla Conferenza Episcopale Italiana, dopo quasi trent’anni passati in segreteria di Stato, di occuparsi della pastorale sanitaria in Italia (1970-1977).
La logica e lo stile della pastorale integrata richiedono ancora una volta che tutti gli ambiti e gli uffici posti a servizio delle comunità e delle singole persone, pensino, progettino e agiscano dentro una collaborazione reale e costante.


DA MALATO A MALATO


Il 5 agosto 2010 avevo un po’ di febbre, ma pensai che celebrare la S. Messa non avrebbe costituito una fatica improba. Svenni in chiesa durante la consacrazione. Sentendo avvicinarsi il momento ebbi l’accortezza di interrompere la celebrazione e sedermi, per poi risvegliarmi semidisteso, madido di sudore, circondato dai fedeli in palese apprensione. Uno di loro aveva già telefonato al 118. Ripresi la celebrazione.
Poco dopo arrivò l’ambulanza e il personale mi consigliò una visita al Pronto soccorso per un controllo. Ritenni che fosse una precauzione esagerata e firmai il modulo liberatorio. Il giorno dopo, il 6 agosto, alla medesima ora ero già di ritorno dal Pronto soccorso: stavolta ci ero dovuto andare io e assai convinto!
Il 6 agosto era il primo venerdì del mese e il diacono mi sostituì nella visita mensile ai malati spiegando il contrattempo che mi era capitato. Solo il 22 agosto potevo dire di esserne uscito, pur dovendo continuare una cura per qualche settimana.
Il 3 settembre successivo era il primo venerdì del mese. Ritornai a fare la visita ai malati e qui avvertii con quale interesse mi chiedevano come stavo, come era andata, desiderando conoscere i particolari. Non dico che fossero contenti della mia disavventura, ma... era come se dai loro volti mi arrivasse un messaggio nitido: «Sei stato dei nostri! Magari lo sei ancora».
Mi torna in mente il caso di una ragazza malata di sclerosi multipla che alla mia prima visita mi prevenne, quando il discorso stava addentrandosi sui «perché», minacciandomi di non azzardare discorsi del tipo «Dio ti vuole bene» o addirittura «ti predilige». Se l’era sentito dire in passato e aveva reagito molto male, perché comunque chi le rivolgeva quelle parole era sano.
Come parlare della fame nel mondo con lo stuzzicadenti in bocca: un particolare raccontato a me da uno che era presente a quella conferenza e ne era rimasto leggermente infastidito. Questioni di psicologia, certo, ma non per questo trascurabili.
Non mi sto augurando di ammalarmi per avere questo lasciapassare in più. Credo che questo sospetto non vi sfiori neppure e se lo fa mi affretto a liberarvene. Ci sono già molti malati capaci di essere apostoli verso altri malati.
Nei miei 25 anni di insegnamento al Liceo-ginnasio Vincenzo Monti ho più volte notato come un giovane studente sia particolarmente attento al proprio compagno di scuola che gli dice le stesse cose dell’insegnante di Religione… a volte perché lo fa con un linguaggio diverso e più adatto, ma altre volte nonostante egli usi le stesse identiche parole. Così accade tra malati.
Giovanni Paolo II scrisse la lettera apostolica Salvifici Doloris ai vescovi, ai sacerdoti, alle famiglie religiose ed ai fedeli della chiesa cattolica sul senso cristiano della sofferenza umana l’11 febbraio 1984. Tre anni prima aveva subito l’attentato, ma poi si era ripreso e stava bene. Otto anni dopo, il 13 maggio del 1992 scrisse la lettera con cui istituiva la giornata mondiale del malato: la I Giornata Mondiale del Malato ebbe come riferimento Lourdes: fu l’11 febbraio 1993.
Quanta ricchezza di magistero scritto, quanta profondità. Ma c’è una Lettera apostolica che questo santo papa ha scritto nel cuore di tanti, penso di tutti, con la sua malattia degli ultimi anni, con la sofferenza mostrata senza ostentazione e senza vergogna, col suo silenzio degli ultimi mesi.
Sono certo che quella lettera vivente è stata letta dai malati senza bisogno di commento e credo che in molte coscienze la bella notizia cristiana sia riuscita ad entrare, a fare breccia, a volare proprio su quelle ali apparentemente spezzate.





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