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Walter Amaducci: Conferenze



Dolore e sofferenza



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Walter Amaducci

"DOLORE E SOFFERENZA: UNA OPPORTUNITA'?"

11 novembre 2009
Decima giornata del sollievo o delle cure palliative



“Dolore e sofferenza: una opportunità?” La domanda è palesemente retorica: chi promuove questo incontro pensa ad un punto esclamativo più che a un interrogativo.
Dolore e sofferenza sono una opportunità!
Opportunità per chi?
Sofferenti, malati, famiglie, medici, tutto il personale della sanità, volontari, tutti.

Oggi a Bergamo – dalle 9 alle 17,30 – si è tenuto un convegno con ben 17 relatori “20 anni di cure palliative A Bergamo” nel cui depliant informativo si legge:
“Questo convegno si inserisce fra le iniziative della «X Giornata Nazionale contro la sofferenza inutile della persona inguaribile» promossa dalla Federazione Cure Palliative (FCP) che compie dieci anni di vita.

Non esiste come tale una “sofferenza inutile”: viceversa tutto può essere reso inutile e perfino dannoso da chi sciupa o usa male un’opportunità.

Credo che questa giornata debba promuovere il riconoscimento della dignità degli interventi palliativi, perché ne venga un incremento alla ricerca e all’applicazione, un aiuto ai medici e al personale a resistere alla tentazione di sentirsi frustrati, perché si possa uscire dall’accezione negativa del termine. Esiste una concatenazione perversa: palliativo = non risolutivo = non serve a niente.

Tra le iniziative di carattere politico legislativo: disegno di legge (DDL) 1771 trasmesso in data 18 settembre 2009. Cure mediche e chirurgiche, assistenza ambulatoriale e domiciliare, strutture di tipo extra ospedaliero, malati, tumori.

Le cure palliative nell’immaginario comune vengono istintivamente limitate ai casi gravi del fine vita. Anche l’enciclica “Evangelium vitae” parte da queste situazioni.
«Nella medicina moderna vanno acquistando rilievo particolare le cosiddette «cure palliative», destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia e ad assicurare al tempo stesso al paziente un adeguato accompagnamento umano» .
Credo che faremo bene a non fermarci qui, ma ad aprire il campo a tutte le sofferenze, alle malattie croniche e alle condizioni di disabilità, alle sofferenze fisiche e a quelle psicologiche e morali. Non dimentichiamo che l’esperienza e la percezione del dolore vero sono sempre e comunque un fatto dell’anima e non solo del corpo.

C’è dunque un vangelo della sofferenza?
Cioè si può sostenere e diffondere una bella notizia riguardante dolore e sofferenza?
Certamente!
Parto da un’espressione concisa della lettera apostolica Salvifici doloris di Giovanni Paolo II:

«Cristo allo stesso tempo ha insegnato all’uomo a far del bene con la sofferenza ed a far del bene a chi soffre. In questo duplice aspetto egli ha svelato fino in fondo il senso della sofferenza» .

C’è un senso. E basta contemplare il crocifisso per intuirlo: se quello è il Figlio di Dio, ciò che gli sta accadendo non può essere senza senso. Non capisco nulla, ma di uno così mi posso fidare!
Ma c’è soprattutto un lieto fine. L’ultima parola è di vita e di gioia: l’ultimo atto è la risurrezione. Allora davvero tutto diventa vangelo: bella notizia.
Leggiamo nella Prima lettera di Pietro: «Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare» . La speranza cristiana è l’attesa fiduciosa e sicura di questo bene definitivo, ormai al sicuro per sempre.


RIFERIMENTI AUTOREVOLI
del Magistero della Chiesa Cattolica

Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica 28 giugno 2005
Evangelium vitae (enciclica di Giovanni Paolo II) 25 marzo 1995
Catechismo della Chiesa Cattolica 11 ottobre 1992
Salvifici doloris (Lettera apostolica di Giovanni Paolo II) 11 febbraio 1984
Dichiarazione sull'Eutanasia (Sacra Congr per la Dottrina della Fede) 5 maggio 1980

Il papa e i vescovi riprendono molto spesso nel loro magistero ordinario i temi della vita e del suo valore. I documenti sopra citati costituiscono i riferimenti fondamentali.
Due icone bibliche ci illuminano immediatamente:

Prima icona: chi soffre è con Cristo in croce
«Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa». Colossesi 1,24

La precedente traduzione della CEI recitava:
«Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa».

Il card. Biffi osservò che il card. Ratzinger difficilmente avrebbe consentito a Paolo questa affermazione; forse è meglio dire la vecchia traduzione di questa espressione. Con tutte le sfumature da precisare, comunque, il significato è chiaro:
Cristo ha portato con sé sulla croce i dolori e le sofferenze di ogni uomo dando ad esse un valore redentivo, di “corredenzione”: offerte insieme alle sue al Padre, esse sono “salvifiche” per l’offerente e per tutti coloro a beneficio dei quali sono offerte.

Come le preghiere. Chi crede sa che l’intercessione continua di chi vive in clausura va a beneficio reale di tante persone, vive e defunte. Questo vale per ogni preghiera di intercessione. S. Teresa di Gesù Bambino divenne patrona delle Missioni per questa duplice offerta, di preghiera e di sacrificio, a beneficio dei missionari.

Seconda icona: il buon Samaritano
«”Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?”. Quegli rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso”». Luca 10,36-37

«Buon Samaritano è, dunque, in definitiva colui che porta aiuto nella sofferenza, di qualunque natura essa sia. Aiuto, in quanto possibile, efficace. In esso egli mette il suo cuore, ma non risparmia neanche i mezzi materiali. Si può dire che dà se stesso, il suo proprio « io », aprendo quest’« io » all’altro. Tocchiamo qui uno dei punti-chiave di tutta l’antropologia cristiana. L’uomo non può « ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé »(GS 24). Buon Samaritano è l’uomo capace appunto di tale dono di sé» .



Un punto chiave di tutta l’antropologia cristiana:

GS 22: Gesù non solo rivela Dio all’uomo ma rivela l’uomo a se stesso e gli rende nota la sua altissima vocazione.
GS 24: L’uomo non può «ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé»

Scopo dell’esistenza è la felicità che consiste nella comunione con Dio, da ora e per l’eternità. "Tu ci hai fatti per Te e il nostro cuore non ha pace finché non riposa Te" esclama S. Agostino nelle sue Confessioni.


Esiste il male. Ma l’unico vero male, in definitiva è questo: perdere Dio. O non averlo incontrato.

Scopo dell’esistenza non è stare bene fisicamente, essere sereni psicologicamente, non avere dolori e preoccupazioni.
Anche quando diciamo che il valore primo è la vita di un uomo, questo è vero in termini logici e cronologici: ma non in termini assoluti.
Il valore supremo è l’AMORE. Amore che si realizza nel dono di sé, che vive del dono di sé.

Ecco l’uomo! La verità profonda della apparentemente banale espressione di Pilato.
Quello è il modello dell’uomo.
Lo è per me cristiano con la presunzione che lo sia per tutti
Non è vero solo per chi ci crede ma è vero per tutti.
Atteggiamento arrogante? Se fossi io a dirlo sì; se lo dice Cristo, il Dio con noi, allora no. Lui può affermare: “io sono la verità” perché non è solo un uomo. La missione cristiana si fonda su questa autorità di Cristo.

Cristo dunque ha insegnato all’uomo “a far del bene con la sofferenza ed a far del bene a chi soffre” lo ha insegnato con le parole ma soprattutto con tutta la sua persona, con la sua vita, culminata nella sua Pasqua.

Far del bene con la sofferenza e far del bene a chi soffre è stata la caratteristica di innumerevoli santi, cioè di coloro che hanno raggiunto la perfezione dell’amore, del dono di sé. Compreso San Martino, che dona metà del suo mantello: fa quello che può, cioè tutto. “Faccio quello che posso”: magari fosse sempre vero!
Ogni santo ha seguito la sua vocazione particolare. Come è chiesto a tutti noi.
Far del bene a chi soffre è allora togliergli la sofferenza
o svelargliene il senso e il valore?

Entrambe le cose. Contemporaneamente. Qui si impone il cattolico et-et.
Il primo impegno è togliere o alleviare la sofferenza e il dolore.

Gesù è un guaritore. Chiede ai suoi discepoli di fare lo stesso.

Matteo 10.1: Chiamati a sé i dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d’infermità.
Matteo 10.8: Guarite gli infermi.
Luca 10.9: mangiate quello che vi sarà messo dinanzi, curate i malati che vi si trovano, e dite loro: Si è avvicinato a voi il regno di Dio
Marco 16.17-18: E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demòni, parleranno lingue nuove, … imporranno le mani ai malati e questi guariranno».

Ma allora un malato della comunità di Colossi, al quale Paolo ha appena scritto: “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” non potrebbe pensare di tenersi le sue sofferenze redente da Cristo rifiutando ogni cura e desiderando soffrire volontariamente?
Tanto più che altri, che stanno bene, accanto a lui lo fanno con digiuni e penitenze?

«Se, infatti, può essere considerato degno di lode chi accetta volontariamente di soffrire rinunciando a interventi antidolorifici per conservare la piena lucidità e partecipare, se credente, in maniera consapevole alla passione del Signore, tale comportamento «eroico» non può essere ritenuto doveroso per tutti» .

Comportamento eroico, non da masochista.
Gesù si è comportato così, rifiutando il vino misto a mirra. Era un atto di pietà verso i condannati. Veniva dato ai condannati del vino misto a mirra, amaro come fiele, che agiva un po’ da narcotico. Gesù non ne volle bere; voleva consumare il suo sacrificio in perfetta lucidità.

Non può essere ritenuto doveroso per tutti. Anzi il dovere ordinario è opposto:
«Ciascuno ha il dovere di curarsi e di farsi curare. Coloro che hanno in cura gli ammalati devono prestare la loro opera con ogni diligenza e somministrare quei rimedi che riterranno necessari o utili» .

Testimonianze pagane:

Gli Stoici - filosofi greci del V sec. a.C. - affermavano che le avversità della vita individuale fanno parte del corso naturale degli eventi umani e che bisogna non solo sopportarle con pazienza e distacco, ma utilizzarle per rafforzare il proprio animo e imparare ad accettare la propria natura mortale”.

Seneca esortava ad “accettare la nostra natura mortale e a non avere paura di soffrire, perché nella sofferenza possiamo scoprire il significato vero della vita e liberarci dal timore della morte e del dolore, dal piacere effimero e fragile, per raggiungere la vera, duratura felicità che consiste nel distacco delle passioni (che sono causa dei turbamenti psicologici) e nella imperturbabilità”.

Tale comportamento «eroico» non può essere ritenuto doveroso per tutti.
Dunque è una vocazione.

Benedetta Bianchi Porro: la mancata guarigione a Lourdes.
1962, 24-31 maggio: è a Lourdes in pellegrinaggio con l’Unitalsi. Guarisce miracolosamente Maria Della Bosca di Tirano.
1963, 24-30 giugno: compie il secondo pellegrinaggio a Lourdes con l’Oftal. «Ed io mi sono accorta, più che mai, della ricchezza del mio stato, e non desidero altro che conservarlo. È stato questo il miracolo di Lourdes, quest’anno».
Dal dramma “Qualche cosa di grande”:
Benedetta: Io non desideravo star male. Io volevo stare con Dio, stare bene con Lui, senza che niente diventasse talmente importante o talmente terribile da interporsi tra me e Lui. Perché la gioia di star bene con Lui non era e non è paragonabile ad altre!

La sofferenza è scoperta come sigillo, come garanzia dell’amore.
Perché ciò che ci ha salvati non è stato il dolore di Cristo, ma il suo amore: il suo amore di obbedienza al Padre così forte e totale da non fermarsi neppure di fronte a tanta sofferenza e a tanto dolore. E in ciò si è rivelato l’amore di Cristo per noi, ma ancora di più l’amore del Padre: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» .
Questi contenuti, queste certezze vanno comunicate ai malati e ai sofferenti sottovoce. Anzi vanno testimoniate con una discrezione esterna pari alla forza della convinzione interiore. Vanno testimoniate chiedendo loro preghiere e offerta, trattandoli effettivamente come “soggetti” di pastorale e non solo come destinatari.

Dal 1967 esiste a Cesena l’associazione CVS. Il malato apostolo dei malati. Quando è un malato a testimoniare questo, la sua parola non si presta ad ambiguità. Testimonianza di malati che vivono questo, come la presidente del CVS, Loretta che a Lourdes disse: «Se dovessi tornare quella di prima, con le gambe sane di allora ma anche con la testa che avevo allora … io preferisco restare come sono adesso».
Sottovoce. Non tutti sono Loretta. Sandra Cappelli minacciosa, una delle prime volte che la incontrai, mi prevenne: “E non mi venire a dire che la mia è una condizione privilegiata, come un prete ebbe la sfrontatezza di affermare davanti a me!”.

Il comportamento «eroico» non è di tutti. È una vocazione. Ordinariamente si deve ricorrere alle cure e ai rimedi della medicina. Dovere di curare e di farsi curare.

«Si dovrà però, in tutte le circostanze, ricorrere ad ogni rimedio possibile? Finora i moralisti rispondevano che non si è mai obbligati all’uso dei mezzi “straordinari”. Oggi però tale risposta, sempre valida in linea di principio, può forse sembrare meno chiara, sia per l’imprecisione del termine che per i rapidi progressi della terapia. Perciò alcuni preferiscono parlare di mezzi “proporzionati” e “sproporzionati”» .

È la problematica di drammatica attualità, che richiede l’indispensabile apporto del laico cattolico. Se il tema delle cure palliative non riguarda solo i malati gravi o terminali, è però su costoro che si stanno concentrando l’attenzione, la riflessione e la discussione. Recenti fatti di cronaca hanno portato alla ribalta le condizioni dei malati gravi, anche se non terminali, specialmente di quelli in stato di incoscienza (coma).

Per i malati di questo genere, per quelli terminali, per tutti i sofferenti inguaribili, le coscienze si interrogano.
Siamo schiacciati tra EUTANASIA e ACCANIMENTO TERAPEUTICO, senza la serenità necessaria, data l’impostazione ideologica che sta prevalendo.

Le difficoltà non sono soltanto pratiche, cioè relative alla forza morale necessaria per vivere coerentemente un valore in cui si crede.
Lo stato confusionale è mentale, e paradossalmente “più confusa è la meta, più repentina diventa la corsa” (Navarro Valls).
EUTANASIA

«Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati» .

Le tipologie morali dell’eutanasia, semplificate al massimo, sono riconducibili a due:
SUICIDIO ASSISTITO
OMICIDIO PER PIETÀ
entrambe immorali, dunque illecite e inaccettabili.
Ma entrambe incontrano un favore crescente
in quanto alle domande: è una vita che vale ancora quella?
è una vita degna si essere vissuta?
se capitasse a me preferirei continuare a vivere?
la risposta più diffusa, pensata o detta ad alta voce è: NO.

È passato un principio: si può togliere di mezzo il dolore togliendo di mezzo la persona che soffre.
Se lo applicassimo alle altre sofferenze umane (es. fame nel mondo) dovremmo trarne conseguenze abnormi.
Per usare un esempio scolastico: non è più evidente che un problema non si risolve cestinando il foglio del compito. Rottamare un’auto è possibile (non vale la pena accomodarla, spendi meno a comprarla nuova!)
Ma un uomo non si può rottamare. Un uomo non lo fai nuovo, in questa vita.

ACCANIMENTO TERAPEUTICO

Dall’eutanasia «va distinta la decisione di rinunciare al cosiddetto «accanimento terapeutico», ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia. (…) Occorre cioè valutare se i mezzi terapeutici a disposizione siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte» .
Anche l’accanimento terapeutico sta avanzando.
Mi pare che sia sempre più possibile, che si insinui pericolosamente nella prassi.
Non tanto come posizione personale di un medico, fosse pure un primario, quanto per un trand ormai diffuso, per uno stile imposto dalle nuove scoperte e invenzioni farmacologiche, tecnologiche, ecc.
“Se si interviene possiamo allungargli la vita di tre settimane, di due mesi, …”
Quale durata di tempo aggiunto può giustificare certi interventi?
A che prezzo? Chi lo decide?

Quando un intervento è sproporzionato? A te, laico cattolico competente, il compito, il dovere di un discernimento. Non basta più il comune buon senso. Occorre un confronto continuo tra esperti di discipline diverse, un discernimento comunitario.

***

Con semplici accenni, con qualche flash, vorrei ora indicare alcune coordinate culturali che formano la cornice dentro la quale ci muoviamo, quelle che rendono il tema trattato più difficile da impostare e risolvere correttamente.

La nostra epoca, in Italia ma non solo, rivela una terribile debolezza di pensiero e di ragione. Richiamo brevemente quattro aspetti della situazione.

1. EVIDENZE ETICHE SCOMPARSE.
Il cardinale Carlo Maria Martini coniò questa formula a metà degli anni ottanta.
La mentalità corrente in Italia oggi è di impronta radicale, di individualismo sempre più sfrenato, ultima derivazione della cultura liberale.
Dal punta di vista religioso l’adesione parziale o con riserva al Magistero rivela i tratti di un cripto protestantesimo.
Si è indebolito o è del tutto sparito il tessuto culturale di matrice cattolica che per secoli ha riunito la nostra gente dentro un orizzonte condiviso.
Ormai nulla va dato per scontato: la reazione istintiva non garantisce più niente

Esiste una idolatria della libertà individuale. Quando essa non è assolutizzata ciò accade per pura necessità: “La mia libertà finisce dove comincia la tua”.
Ma tale patto convenzionale ignora consapevolmente i rapporti di forza:
un bimbo non nato ha solo la libertà di vivere che gli è accordata dispoticamente
non per diritto, in quanto uomo,
e così un malato non più cosciente, o prostrato nella sua debolezza fisica e psichica.

In fondo che male c’è?
La domanda è sempre più “sincera”: è sparita la sensibilità, si è atrofizzata la capacità di riconoscere le aberrazioni come tali. Sorprendersi è già un buon segno.
2. IMMORALITÀ ESALTATA
I medici immorali sono sempre esistiti, come gli adulteri, i ladri, gli assassini…
Ma in tutte le epoche il livello più basso della immoralità si è toccato quando il male è stato chiamato bene.
Questo accade oggi. C’è l’orgoglio della trasgressione. Viene spudoratamente chiamata conquista civile – cioè di civiltà – una scelta cattiva. C’è la consuetudine diffusa a chiamare segno di civiltà avanzata, di progresso, ciò che a volte è un semplice ritorno alla barbarie del passato.
Anche un tumore può progredire, essere in uno stadio avanzato: “progredito e avanzato”, in tal caso, non significa niente di incoraggiante o di cui rallegrarsi.
Siamo in presenza di un’operazione diabolica. Sono certo di non esagerare. E se qualcuno lo pensa non me ne importa niente.
Satana: menzognero e omicida fin da principio:
«Non potete dare ascolto alle mie parole, voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Giovanni 8.43-44).
Dove c’è menzogna e morte, lì è palesemente all’opera satana, e chi si fa suo strumento o è perverso o suo utile idiota.

3. METAMORFOSI DELLA MISSIONE MEDICA
D’Agostino ne ha parlato tra noi recentemente. Il medico esiste per curare e possibilmente guarire i malati.
Veniva richiamato il giuramento di Ippocrate. Di fatto il contenuto del giuramento sta andando alla deriva.
Si diffonde una concezione di medico come “tecnico del corpo”,
al quale ci si rivolge come a un competente di farmaci e tecniche mediche e chirurgiche, per un obiettivo scelto dal paziente-cliente.
Il medico esiste per alleviare il dolore, curare e guarire? Non solo:
anche per far morire, presto, efficacemente e senza dolore.

Un pronto soccorso da fantascienza.
Due ali, due reparti, con un’accettazione di smistamento.
Mezzo vivo o mezzo morto: espressioni false! Uno o è vivo o è morto.
In base al testamento biologico
o al parere dei parenti
il malato o il ferito viene indirizzato al - reparto recupero
oppure al - reparto rottamazione
Sono ipotesi che fanno sorridere, forse ciniche, ma stanno dietro l’angolo.
4. CRISI DELLA RAZIONALITÀ

Etica razionale Basi razionali dell’etica
Etica religiosa Etica basata sul fondamento della fede

Fuchs: Esiste una morale cristiana? Certo che esiste! Sempre, come motivazione. Il peso o la fatica di una scelta possono perfino sparire quando è forte e convincente la motivazione. “Lo facciamo per Gesù” (Madre Teresa).
Lo zaino del soldato (episodio).

Fede e ragione: entrambe sono indispensabili (fides et ratio). La ragione viene riattivata dalla fede. Ma rimane ragione!
Molte questioni etiche attuali sono da affrontare non in nome della fede, ma della ragione. Papa Benedetto XVI richiama questo continuamente. L’incontro e la collaborazione col mondo laico e non credente possono e devono avvenire in nome della ragione.

L’ultimo passo della ragione è riconoscere una dimensione che la supera: la fede.
Certe decisioni si prendono nel puro ambito della ragione, anche se questa suppone un fondamento metafisico (Kant: postulati: esistenza di Dio e immortalità dell’anima)

Fede = scommessa pascaliana
Anche l’ateismo è una fede, dalle questioni sulle origini (creazione) a quelle sulla fine e sul fine (questioni escatologiche).

L’etica è la conseguenza pratica di una concezione metafisica, che tutti hanno.
E non è scritto da nessuna parte che sia più dignitosa una concezione agnostica o atea rispetto a quella teistica, anche se il dogma diffuso di derivazione illuministica, ad esempio, fa considerare filosofia di serie B quella di filosofi cristiani del calibro di Agostino di Ippona o di Tommaso d’Aquino.

Ma è la stesso pregiudizio che nel linguaggio comune attribuisce al Medio Evo l’aggettivo buio, o semplicemente l’esemplarità di epoca incivile: sei rimasto al Medio Evo? (peggio che dire: all’età della pietra? Età della pietra che per il naturalismo imperante costituisce ovviamente lo splendore della civiltà umana!).

Ma l’abbandono della fede non ha lasciato più spazio alla ragione. Si è invece spalancata la porta alla superstizione e a ogni forma di creduloneria.
La gente crede a tutto e a tutti: astrologi, indovini, cartomanti, sensitivi, …

L’alleanza tra fede e ragione non può attendere oltre.
CONCLUSIONE

Salmo 90
Finiamo i nostri anni come un soffio.
Gli anni della nostra vita sono settanta,
ottanta per i più robusti,
ma quasi tutti sono fatica, dolore;
passano presto e noi ci dileguiamo.

Settanta o ottant’anni: la fotografia è molto relativa, relativa ai tempi e ai luoghi.
Quella della brevità è una sensazione comune, che si acuisce col passare degli anni.
Quasi tutti fatica e dolore: riecheggia il Qoelet. Forse un po’ pessimista, ma chissà…
Passano presto: allora sfruttiamo questa opportunità.
Se “quasi tutti sono fatica, dolore” vuol dire che ogni anno, ogni giorno, l’uomo ha bisogno di “cure palliative”, a meno che non “guarisca” e trasformi il suo dolore in una risorsa salvifica!

DOLORE E SOFFERENZA: UNA OPPORTUNITÀ?

La vita santa di tanti malati,
la dedizione, talora fino all’eroicità, di certi genitori o di persone che dedicano la vita a questo, come le suore del Cottolengo e di mille altri istituti (non è esistita solo madre Teresa di Calcutta, col suo “lo avete fatto a me”),
la premura quotidiana di medici e infermieri, negli ospedali, negli hospices, a domicilio: sono fatti. I fatti parlano. I fatti non si discutono.

“Lo avete fatto a me”. La carità acquista il suo senso e valore da questo.
Anche se sembra inconcludente. Anche se sembra tempo perso.
L’ultima opera di misericordia corporale è: seppellire i morti.
L’ultima opera di misericordia spirituale è: pregare Dio per i vivi e per i morti.
C’è qualcosa di più inutile? (messaggio del film L’arpa birmana).
C’è qualcosa di più inutile dello spendere l’intera vita a pregare?
Dipende dall’orizzonte totale. Dipende dal tuo orizzonte di senso, dipende da dove fissi lo sguardo. Perciò voglio concludere con le parole rivolte da Paolo ai Corinzi, nella Seconda lettera indirizzata a loro (2 Corinzi 4,17-18):

«Il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne».





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