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Walter Amaducci: Saggio

Saggio.    


SUB SPECIE AETERNITATIS





Che cosa spinge un sacerdote a scrivere drammi teatrali? Probabilmente, al di là dell’intento edificante e apologetico da non trascurare, l’impulso è dato dallo stesso motivo che portò alla nascita del grande teatro tragico nell’Atene del quinto secolo a.C.: il bisogno di trovare e testimoniare la risposta al senso del vivere cui l’antichità classica anelò e intravide da lontano e che trova la pienezza nel mistero pasquale di Cristo in cui tutto si compie senza nulla rinnegare.

L’ultimo dramma pubblicato da don Walter Amaducci “Qualche cosa di grande”, come altri drammi dello stesso autore ha, infatti, una struttura simile alla tragedia classica: un prologo introduttivo, due scene e un epilogo. Gli effetti speciali sono ridotti al minimo e tutto è - come nell’antichità - affidato alla potenza evocatrice della parola, anzi delle parole umane in cui riecheggia la Parola che le sostiene e le compie. Il dramma, con pochi personaggi, è incentrato sulla vicenda di Benedetta Bianchi Porro, riletta sub specie aeternitatis, pur con concreti riferimenti alla sua biografia.

Il giornalista, che nell’epilogo assume i tratti dell’autore stesso, pur restando lontanissimo da ogni tentazione di pirandelliano sdoppiamento, ricorda nel corso del dramma i cronisti evangelici: uomini semplici, concreti, messi di fronte nel corso della vita all’enigma di Cristo. Non per niente, la prima domanda rivolta a Benedetta è “Tu, proprio tu, chi sei?”, esattamente come Pilato: “Ma tu di dove vieni?”. Le studentesse che interrogano la protagonista ricordano, invece, la curiosità della folla che attorniava e seguiva Gesù, attratta - proprio come gli amici di Benedetta - dal suo “incontenibile amore per la vita”.

Non manca, poi, come in altri drammi, la presenza del tentatore che cerca di smontare la santità di Benedetta, facendo leva su obiezioni e atteggiamenti sempre validi e costanti: l’orgoglio della propria grandezza (“Adesso la tua sinistra sa bene cosa fa la destra”), la ridicolizzazione della fede ridotta a storiella puerile, la pretesa di separare Cristo dalla Chiesa (“Non cercavi la mano di qualche prete, ma quella del Signore: non ti pare un tantino diverso?”). A queste insinuazioni la protagonista risponde con calma e serenità, ribadendo il primato assoluto di Dio e il ruolo della Chiesa come presenza di Cristo nella storia. Ma è la figura di Benedetta in questo dramma a evocare suggestivi paralleli con eroi ed eroine della tragedia ateniese del quinto secolo.

Chi scrive ha colto, infatti, analogie impressionanti tra la vicenda di Benedetta stessa e quella di Antigone che, per aver sepolto il fratello contro l’ordine del re, affronta una morte atroce: essere murata viva in una grotta senza più vedere il sole né udire voce umana. Anche Benedetta, specie nell’ultimo anno di vita, quando divenne cieca, visse una condizione simile (“Io vivo in un deserto silenzioso… in un buio terribile…). Eppure entrambe non sono sconfitte dalla prova: Antigone la accetta per amore del fratello e per obbedienza alle eterne leggi degli dei, Benedetta offre quella tremenda condizione per la salvezza dei fratelli non di carne, ma di spirito. Entrambe conoscono gli umanissimi cedimenti (“A volte soffro bestialmente, vorrei che finisse…” “Scenderò nell’Ade senza pianto, senza amici, senza canti nuziali…”) uniti all’affermazione della vittoria del bene (“Sono nata per condividere l’amore“ dice Antigone e Benedetta, idealmente rispondendole, replica “Mi sento spesso piena di Spirito Santo… colma di una gioia che non è terrena”). Benedetta amava intensamente la natura come specchio di Dio (“C’è l’universo incantevole. Che bello vivere! Non vedo più il sole, ma lo sento quando entra dalla finestra a scaldarmi le mani… Sento nell’aria odore di primavera. Come è bella la vita!”) e un altro grande personaggio della tragedia greca, Prometeo, incatenato a una rupe, nella più assoluta immobilità per aver donato agli uomini il fuoco, così canta con struggente intensità la bellezza del mondo: “O cielo divino, soffi del vento dalle rapide ali, sorgenti dei fiumi, sorriso infinito delle onde del mare, o terra madre di tutti e tu, occhio del sole che tutto vedi: guardate quanto intensamente soffro per volere degli dei!” Sì, Benedetta, come dice l’autore nell’epilogo, aveva conservato intatti i sensi dell’incanto, lo stupore e le gioia di vivere, perché, come scrisse in una delle ultime lettere, “Ho trovato una sapienza più grande di quella degli uomini. Dio esiste ed è amore, fedeltà, gioia fino alla consumazione dei secoli”: è l’amore alla vita che emerge da questo dramma, perché il valore di ogni cosa è l’amore.



Nicoletta Navacchia

16.5.2010