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Walter Amaducci: Recensione

Recensione.    


LA VITA DI BENEDETTA BIANCHI PORRO

NEL TESTO TEATRALE DI MONSIGNOR WALTER AMADUCCI

"Qualche cosa di grande";
pagine di moderna agiografia


di Marino Mengozzi

«Benedetta Bianchi Porro, tu, proprio tu, chi sei?». Felicissimo l’incipit del nuovo testo teatrale di don Walter Amaducci: per bocca, poi, di Enrico Medi (il noto fisico italiano, Porto Recanati 1911 - Roma 1974), che vi appare nelle vesti di una delle sette dramatis personae. Dunque ancora un’intrusione dell’autore nel genere drammatico: dopo Drammi (Cesena, Stilgraf, 2002: nove pièces a soggetto biblico concepite fra passione personale, intuizione educativa ed esperienza pastorale) e Galla Placidia (Cesena, Stilgraf, 2007: un’opera matura, misurata e circolare, imperniata su dialettiche storiche culturali e religiose che calzanti coppie antinomiche – oriente/occidente, cristiani/pagani, barbarie/civiltà, pace/violenza – ben definiscono).

C’è un presupposto autobiografico all’origine di ispirazione e composizione di Qualche cosa di grande: «Una mattina di giugno passavo per Sirmione. Il nome di quella cittadina si era liberato di Catullo e rinviava alla mia memoria una sola immagine: quella di una casa bianca con le persiane verdi. Ricordavo con quanta dolcezza e nostalgia se ne parlava in uno degli scritti che ti riguardavano, in quella breve biografia che è stata per molti la prima finestra aperta sul tuo mondo. Ero stato già diverse volte a meditare e a pregare presso il tuo sarcofago, alla badia di Dovadola. Mi prese la voglia di vedere il luogo dal quale ci avevi lasciati, la bella casa che ti aveva consegnata all’altra casa, dove ci sono molti posti. Domandai informazioni a qualche passante e una donna mi indicò dove si trovava La meridiana» («Epilogo», pp. 61-62). Ma anche i dialoghi con due studentesse riassumono domande e riflessioni emerse nel corso dell’insegnamento di monsignor Amaducci al Liceo "V Monti" di Cesena. Del resto la sua conoscenza di Benedetta deve molto alle testimonianze dirette di coloro che le sono vissuti accanto, a cominciare da mamma Elsa (che l’autore ha potuto ascoltare) e dalla sorella Emanuela (più volte interpellata e incontrata).

A Benedetta Bianchi Porro (Dovadola, 8 agosto 1936 - Sirmione, 23 gennaio 1964), dichiarata venerabile i1 23 dicembre 1993, il Nostro dedica una partitura essenziale (prologo, prima scena, seconda scena, epilogo), per nulla accademica: una sorta di versione moderna del genere vitae sanctorum; con il corredo, prezioso e opportuno, di un ricco e suggestivo itinerario iconografico (50 foto-documenti) e di un’essenziale ma completa cronologia. La vicenda terrena di questa straordinaria donna di Dio è oggi ben nota; vi aveva messo gli occhi addosso uno che se ne intendeva come padre David Maria Turoldo, che curò Siate nella gioia... Diari Lettere Pensieri di Benedetta Bianchi Porro, Milano 1966: primo di una serie di volumi con testi di e su Benedetta, e tutti ad elevata, fortunata diffusione. La sua “voce”, redatta dal benedettino Giovanni Spinelli già nel 1987 entrava nella Biblioteca Sanctorum (Prima appendice). La sua esistenza fu segnata (martoriata, santificata!) da una malattia terribile, la neurofibromatosi di tipo 1 (NF1 l’infausta sigla di uso scientifico) o morbo di von Recklinghausen (dal nome del patologo tedesco che la descrisse nel 1882). Ma in quella condizione fisica che le aveva sottratto tutto, l’apparentemente fragile ragazza aveva trovato il Tutto, la "scandalosa" ragione della sua letizia contagiosa: "Ho trovato che Dio esiste ed è amore, fedeltà, gioia, certezza, fino alla consumazione dei secoli. Fra poco io non sarò più che un nome; ma il mio spirito vivrà qui fra i miei, fra chi soffre, e non avrò neppure io sofferto invano" (Lettera a Natalino, 1963). Dopo la lettura degli Scritti completi di Benedetta, don Walter trova stimolante e quasi provocatorio l’interrogativo di Medi. Dando voce e corpo al suo interesse per il dramma teatrale, ha così individuato una possibile modalità di risposta al quesito, una via concreta tra le tante percorribili per giungere ad una sintesi; con il palese intento di offrire una prima immagine di Benedetta e della sua straordinaria avventura a chi conosce poco di lei, ma anche quello di cogliere o almeno di avvicinarsi il più possibile al "nocciolo della questione", cioè a quel segreto che consente di trasformare ogni esistenza e ogni suo attimo in "qualche cosa di grande".

La Benedetta di don Walter si segnala per il felice connubio fra agiografia e teatro: ad una tal quota da condurre il lettore all’esempio di Rosvita (935-975), monaca a Gandersheim in Sassonia, la donna-scrittrice più famosa dell’alto medioevo, ben nota per sei drammi (che in Terenzio avevano la fonte linguistico-letteraria e il metodo pedagogico) caratterizzati dall’epica lotta fra bene e male, concepiti sul contrasto mondo-Dio, composti a edificazione propria e altrui. Non sarà vocazione e o diversione, ma la drammaturgia amaducciana a questo punto non va più reputata episodica o dilettantistica: bensì una modalità culturale che indossa la veste letteraria per finalità pastorali, sempre partendo dall’esperienza dell’io (quello vivente e quello narrante in sovrapposta ed efficace sintonia): valga, per tutti, il calzante inserimento di figure-protagonisti quali il giornalista o il tentatore (in vesti tanto classiche quanto modernissime). Ecco perché Qualche cosa di grande, tutto innestato sul tema della fede (che è problema e certezza: «Non c’è più da aspettare il giorno favorevole, l’ora adatta, il momento opportuno. Non c’è da aspettare proprio niente perché la voce è qui e chiama adesso», p. 64), va inteso quale vera e propria rappresentazione agiografica: e in tale senso risulta davvero qualche cosa di bello.



WALTER AMADUCCI, Qualche cosa di grande, Cesena Stilgraf, 2009, pp. 120, 10 euro.