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Walter Amaducci: Mengozzi

Mengozzi.    



Cesena, chiesa di Sant'Agostino, 7 ottobre 2011
Presentazione del volume

DON LINO MANCINI
Una vita per Cristo

a cura di
WALTER AMADUCCI e MARINO MENGOZZI
Cesena, Stilgraf, 2011




Concedetemi di esordire con un aneddoto. La fonte è assolutamente fededegna, e proviene dall'omelia del suo 50° di sacerdozio. Racconta dunque don Lino: "Io andai in seminario a dieci anni e non capivo assolutamente cosa fosse. Il Signore capiva, io no. Dopo un anno mi mandarono via perché ero indisciplinato; anzi, ero normale, ero un bambino che viveva un po' allo stato brado. [...] Chiamarono mio padre e gli dissero: "Vostro figlio non ha la vocazione". Mio padre rispose, in tono ruspante: "Sel cun ha e mi fiol?". Tornai quindi a casa mia. Si vede che non avevo la vocazione! [...] Un anno dopo mons. Pietro Severi, che allora era vicerettore del seminario, mi venne a cercare e disse coi miei genitori: "Ci siamo sbagliati. Questo bambino, secondo noi, deve tornare...". Dobbiamo quindi a un ravveduto discernimento se la nostra Chiesa non fu orbata di tanto sacerdote. Ecco un altro splendido documento per ribadire che le nostre vie non sono quelle del Signore: e per fortuna!
Chi è davvero il sacerdote per il cui profilo nove autori hanno impiegato cinquecento pagine? Lo dice già la nostra presenza, così come lo attesta l'attesa di questa biografia. Vediamola dunque nella sua essenziale composizione.

Rosella Mortani racconta con efficacia i primi anni in famiglia e in parrocchia. Lino nasce a Gambettola il 3 novembre 1916, dodicesimo e ultimo figlio di Giuseppe Mancini e Lavinia Amadori; la famiglia è buona, solida e di ottimi princìpi; i genitori tengono all'educazione cristiana, curano la dirittura morale, sdegnano l'ingiustizia; fratelli e sorelle, tanto numerosi, mai percepiti come peso bensì quale gioiosa ricchezza. Comincia a conoscere la Chiesa da aspirante di Azione Cattolica con il delegato Rino Casalini; l'esempio e lo zelo del parroco (don Giovanni Poloni) e dei cappellani (don Cristoforo Borghesi e don Giuseppe Marchi) saranno da lui stesso indicati quali primi responsabili della propria vocazione: sulla cui attrattiva influirono pure lo zio prete don Ercole e l'ingresso in seminario del fratello Alfredo. In proposito don Lino dirà: "I fattori che hanno favorito l'origine della mia vocazione sono stati l'esempio dei miei genitori che davano grande importanza alla fede cristiana praticata e alla libertà politica [...]. Inoltre l'amicizia di don Cristoforo Borghesi, il mio cappellano e santo prete. Poi l'esperienza dell'Azione Cattolica [...]. Infine la scelta di uno dei miei undici fratelli, di due anni maggiore di me, di entrare in seminario. [...] Vorrei dire grazie anche ad una persona che è morta, un vescovo di Cesena, mons. Pietro Severi, perché è intervenuto quasi miracolosamente nella mia vita"

E' don Walter Amaducci a delineare, con documentata precisione, gli anni della formazione. Entrato in seminario a Cesena nel 1926, nel '32 passa a Bologna e qui avvia gli studi liceali, con risultati brillantissimi: 9 e 10 in Filosofia, Religione e Greco. Appena l'anno seguente vince un concorso e si trasferisce nel Seminario Minore di Roma, ove termina il liceo nel '36 con il massimo dei voti, acquisendo quel bagaglio culturale e quel metodo d'uso della razionalità che contraddistinguono tutta la sua parabola esistenziale. Gli studi di Teologia prendono avvio nell'ottobre '36 e si concludono il 4 giugno del '40 con la licenza in Sacra Teologia, dopo aver già ricevuto l'ordinazione sacerdotale il 3 febbraio di quell'anno. Poi, per approfondire lo studio della Sacra Scrittura, s'iscrive alla Gregoriana nell'anno accademico '40-'41 e segue i corsi del Pontificio Istituto Biblico per l'anno '41-'42: un biennio intenso e fruttuoso, con docenti e maestri di grande celebrità quali Augustin Bea, Urban Holzmeister, Marcin Lemkowski, Augustinus Merk, Alfred Pohl, Alberto Vaccari, Alfredo Vitti, Maximilian Zerwick. Ma don Lino non consegue la licenza in Sacra Scrittura: per la quale gli manca l'esame finale di un solo corso, quello di Lingua araba. Richiamato in diocesi dal vescovo Beniamino Socche, saluta Roma e con essa pure gli studi al Biblico. Sappiamo che non gli era mancato l'invito a rimanervi per intraprendere la carriera nella diplomazia vaticana; "Resta", gli chiede il compagno Salvatore Pappalardo (poi arcivescovo di Palermo e cardinale): "no", risponde Mancini, "torno nel mio paesello, in Romagna". Molto significativa, in proposito, la testimonianza di un altro compagno di studi, il cardinale Fiorenzo Angelini: "E' stato per noi suoi compagni un esempio da imitare. Sono rimasto sempre sorpreso di come un sacerdote che consideravo eccellente per la sua vita e per i suoi ideali non avesse mai fatto parlare di sé".

Sul sacerdozio userà parole di grande intensità: "Tutti i sacerdoti un giorno dissero di sì al Signore con una totale generosità. E' un immenso valore che resta. Quel sì non può essere cancellato più. Nessuno ha saputo amare tanto gli uomini quanto i sacerdoti che hanno offerto a Dio, per gli uomini, perfino ciò che c'è di più radicale nella nostra natura: la paternità naturale. La nostra verginità di corpo e di cuore, che non può durare senza la sostituzione di una calda paternità spirituale, è una ricchezza anche umana che ogni sacerdote porta con sè. La sua solitudine umana é una quotidiana prova del suo amore agli uomini [...]: dobbiamo volerci più bene e ci capiremo di più. [...] Quando il sacerdote, avendo fra le mani un pezzettino di pane, dice "Questo è il mio corpo", non è il corpo del sacerdote, pure lui uomo e più bisognoso degli altri, ma di Gesù che parla e agisce. Vi confesso che ogni volta che faccio la Messa e arrivo a queste parole mi si sconvolge il cuore e mi verrebbe da dire forte, a voce alta: "Grazie, Gesù. Non ti sei ancora stancato!". "E' questo che mi fa vivere, è per questo che sono contento di essere nato e di essere prete".

Giovanni Maroni, Marco Garaffoni e Fabrizio Foschi considerano l'assistentato ecclesiastico svolto da don Lino rispettivamente nell'Azione Cattolica, nello scoutismo, in Gioventù Studentesca e Comunione e Liberazione. E', questa, una lunga e laboriosa stagione, caratterizzata da grande fervore e dinamismo, in una progressione di riflessioni e azioni pastorali sempre più lucide, nette ed essenziali.

Assistente della GIAC dal '46 con il vescovo Vincenzo Gili, delegato dell'Azione Cattolica dal settembre '55 per incarico di mons. Giuseppe Amici, confermato due anni dopo da Augusto Gianfranceschi, don Mancini copre questo ruolo fino al giugno del '67. Dunque per ben ventun anni egli guida la storica Associazione laicale, il cui punto di forza era, per sua stessa ammissione, la teologia dei laici, da lui così sintetizzata: "La Chiesa non è fatta solo di vescovi e preti, ma è comunione di tutti i battezzati; la Chiesa è missione e i laici sono parte integrante della missione. In effetti la coscienza di una responsabilità dei laici cominciava ad essere diffusa e animava largamente l'esperienza dell'Azione Cattolica, anche se c'era da condurre un lavoro educativo di sclericalizzazione, contro il pregiudizio tenace che la Chiesa coincide con i preti". Con ferma convinzione, egli si preoccupa sempre meno dei problemi organizzativi e sempre più della questione del metodo educativo: una parola certo non nuova ma che in don Lino acquista novità di senso e valore. Anche la nascita a Cesena del "Gruppo San Paolo", frutto dei suoi rapporti con un'associazione diocesana milanese di preti e laici, va considerata alla luce di quest'ansia di rinnovamento educativo e pastorale.

Nell'estate del '47 don Lino ha il primo contatto con lo scoutismo e diviene assistente dell'Associazione. La sua guida imprime una chiara direttrice al percorso formativo, che ha come centro e scopo l'educazione alla fede. La sua presenza ai momenti costitutivi della vita associativa si caratterizza da subito e sempre per l'incisività e l'efficacia. Del metodo scout gli piacciono l'ideale di vita come servizio a partire dal Vangelo e la concretezza pedagogica dell'imparare attraverso l'esperienza, facendo attenzione a che l'impegno del fare non mettesse da parte Cristo.

All'inizio degli anni Sessanta l'impressione di un certo ristagno nell'apparato dell'Azione Cattolica, la convinzione di doverla traghettare da associazione a comunità e l'imbattersi nell'esperienza di Gioventù Studentesca avviano un nuovo, importante segmento della sua esperienza sacerdotale. Lo descrive così nel '76: "Rimasi colpito dalla diversità di clima e di stile fra quel gruppo di studenti forlivesi cui avevo predicato un ritiro e le nostre associazioni di AC. Mi parve di trovarmi di fronte a qualcosa di fresco e di genuino, di elementare e di concreto, di libero e di preciso; di fronte ad una "novità" riscoperta, perché antica. Invitai allora a Cesena don Luigi Giussani e, dopo averlo attentamente ascoltato, gli feci alcune domande. Le risposte mi convinsero. E da allora ho continuato ad impegnarmi in questo Movimento che, pur con tanti limiti, mi pare una delle realtà più interessanti e ricche di potenzialità per un concreto aiuto sia alla Chiesa che alla società italiana".

L'insegnamento di Religione è un'altra capitale tappa donliniana. Il tempo lungo della sua docenza al Liceo "Monti" (ben ventinove anni, dal '48 al '77) è raccontato da Marinella Baiardi: che, con il supporto dei documenti e delle testimonianze, mette efficacemente a fuoco i caratteri del professore. "S'imponeva senza salire sulla cattedra (alla quale non si sedeva quasi mai), esercitava sugli alunni il fascino di un capitano che conosce la rotta, non teme i marosi e non abbandona nessuno di coloro che ha caricato a bordo". La Baiardi registra, da allieva, come "il suo carisma si comunicava già nella sicurezza del passo con cui entrava in aula, nel piglio deciso con cui si tirava su le maniche, quasi volesse comunicare con quel gesto che non c'era tempo da perdere in sciocchezze e urgeva affrontare la questione con forza. Gli studenti erano colpiti dal suo stile dilemmatico, da quell'alternativa fatale tra vita e morte, segnate con decisione, subito, al primo incontro, sulla lavagna. Non dava scampo, smontava ogni obiezione, perché tutto riconduceva sempre alla scelta essenziale: vuoi vivere?". Tutti noi che ne fummo alunni riconosciamo bene le pose, le parole e i ragionamenti.
Riferendosi all'esperienza d'insegnante al "Monti" così si esprimerà: "Il ricordo delle origini del Movimento conduce al lavoro fatto insieme a scuola, al Liceo Classico, dove sono stato tantissimi anni e dove ho incontrato tantissimi giovani. Credo che si possa dire che, almeno per un certo periodo, la spina dorsale del Movimento a Cesena è stata fatta soprattutto da quelli del Classico, che nella scuola hanno cominciato a provare la durezza e la gioia di costruire la creatura nuova, il mondo nuovo, la comunità cristiana. Lì abbiamo vissuto momenti di sviluppo del tentativo di una originale presenza culturale-politica per una crescita della scuola in senso realmente democratico, cioè rispettoso delle diverse identità di base".

La vitalità del docente e del formatore non si esaurisce certo al "Monti". E' don Giordano Amati a delineare la feconda e intensa attività al Seminario regionale di Bologna nell'insegnamento di Sacra Scrittura, il magistero nella Scuola diocesana di Teologia, nella Scuola biblica diocesana, all'Istituto interdiocesano di Scienze religiose, nei Corsi di aggiornamento per il clero e gli insegnanti di Religione cattolica. Don Lino affronta con padronanza molteplici argomenti, ma i temi che attraversano tutto il pensiero teologico e formativo sono la Chiesa, la Sacra Scrittura e la Liturgia.

Non gli sono estranee le problematiche sociali e politiche: anzi, in questi settori era capace di portare contributi lucidissimi e lungimiranti, agendo in prima persona, con il coraggio e l'audacia che derivano da una fede vissuta e incarnata, giocata nei tempi e negli spazi degli uomini. Ecco allora don Lino nella Resistenza, delineato da don Piero Altieri, e il prete battagliero delle stagioni politiche e dei valori civili, secondo la lettura ricca e articolata che ne fa Giovanni Maroni.
Don Lino ha convinzioni precise circa le modalità e i contenuti dell'impegno civico e politico: "La libertà di pensiero è il diritto dell'intelligenza di aderire alla verità, poiché come la volontà è ordinata al bene, così l'intelligenza al vero. Non si può essere con Cristo nella Chiesa e contro Cristo nella piazza e nella politica! E' certo che la Fede investe tutta la vita degli uomini. E' globale ed è concreta. Ma è certo che dalla Fede non si deducono leggi o soluzioni di problemi che sono da inventare, e non sempre da soli. Ciò che importa è che la Fede non viva sulle nuvole e che non si cada mai nell'errore di identificarla con un prodotto puramente umano, ideologico o meno. [...] La Fede cristiana permette di giudicare la realtà alla luce di un criterio quasi assoluto: questo criterio è l'uomo. E' sull'uomo, sulla sua difesa e promozione che vanno misurati ideologie e partiti. E l'uomo, per noi cristiani, è il Figlio di Dio: ogni uomo, nato e non ancora nato, giovane e vecchio, bianco e di colore, sano o handicappato, di questo o di quel partito; con una preferenza, per il più debole. Per questa fedeltà all'uomo ho combattuto, per non cadere sotto un nuovo padrone. Io, come cristiano, non ho padroni. Ma bisogna continuare a operare e a credere, nonostante le delusioni, soprattutto per creare un mondo di pace, di giustizia, senza finzioni, senza furberie, senza ruberie, senza menzogne. Ed è possibile!".

A Maurizio Bianchi dobbiamo un originale inquadramento dell'uomo di cultura, indagato e messo a fuoco con nuova luce interpretativa. A partire dalle ben note e graduali asserzioni: "Cultura è coltivazione dell'umano, crescita dell'uomo, di tutto l'uomo. Non esiste cultura senza giudizio. Non esiste giudizio senza un criterio: il criterio è l'unità di misura, il filtro in base al quale si sceglie e si scarta, ossia si giudica".

Il tempo di San Domenico (dal '76 al '94) è riepilogato da Marco Garaffoni: un'esperienza singolare, una sintesi e una verifica di quanto vissuto e operato in precedenza. Al momento di lasciare la parrocchia saluterà così: "Ringrazio anche voi di San Domenico, gli ultimi coi quali sto. Un prete difficilmente si salva se non ha una comunità che lo aiuta a salvarsi. Il Signore non ha fatto la salvezza in modo tale che uno si salvi staccato dagli altri. Lo dice esplicitamente il Concilio: "Dio non ci salva uno per uno, uno staccato dall'altro, ma ci salva perché attraverso il Battesimo ci inserisce in una famiglia, in un popolo". Ci salva insieme, quindi ognuno di noi è un po' responsaabile della salvezza degli altri. Vi ringrazio perché state assolvendo questo compito nei miei confronti, di aiutarmi cioè alla salvezza con la vostra presenza, col vostro impegno, col vostro affetto, col vostro lavoro, col vostro dolore, coi vostri sacrifici, con la vostra gioia, coi vostri canti, ed anche con le grane che mi piantate, se riesco ad offrirle al Signore nel modo giusto!".

Tocca infine a don Walter la conclusione della vita e del libro. E' l'ultimo pellegrinaggio del Barone: il ritorno a Palazzo Ghini (dopo aver rinunciato alla parrocchia il 21 ottobre 1994 ed essere stato nominato canonico teologo del Capitolo della cattedrale), la Casa del Clero (dal 20 giugno 1996) e la Casa di riposo "Don Baronio" (dal 16 ottobre 2000). Da quest'ultima data "iniziava quel declino che è stato sotto gli occhi di tutti, e che non ha risparmiato neppure lui quanto a rammarico, amarezza e umiliazione. Perché don Lino si è reso conto di questa sua nuova fragilità e in qualche modo ha vissuto il suo "eccomi" finale, o almeno penultimo, con lo spessore disarmato degli anawìm, dei poveri di Dio della tradizione biblica". E' al "Don Baronio" che il sipario cala alle ore 12 del 2 ottobre 2001.

Due fari hanno orientato la parabola terrena dell'uomo, del prete e del maestro. Il primo è la Bibbia, che studiava perché l'amava e che amava perché la studiava, sperimentando l'intuizione già di Gregorio Magno che il Testo cresce con chi lo legge. Il secondo è il Concilio, fonte di rinnovamento autentico e sorgente di trasformazione buona, bussola del suo pensare teologico e del suo agire pastorale, sempre con lo sguardo fisso all'essenziale della vita di fede e senza attardarsi a classificare quelli "di Paolo, di Apollo o di Cefa". Non esistono le molte stagioni della sua vita: il pensiero, il metodo, il sistema, il catechismo di don Lino si declinano ma non mutano. Non ha difettato nel porsi, e dunque nell'opporsi, anche in virtù del carattere: ne era pienamente consapevole, ma lo viveva con libertà perché sapeva che lo sapevano tutti.
Ecco, noi ricordiamo con affetto e gratitudine il maestro che non c'è più, ma il magistero rimane in tutta la sua giovinezza: fresco, convincente e persuasivo, possibile ora come allora. E' il tesoro del cristianesimo, conquistabile da un io vivo anche oggi, qui e ora. Il cuore di don Lino, cioè della bellezza della fede e della missione della Chiesa, è tutto qui.

Marino Mengozzi