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Walter Amaducci: Malatestiana

Malatestiana.    

MARINO MENGOZZI
Presentazione del volume

Il seminario di Cesena

a cura di Walter Amaducci


Cesena, Stilgraf-Fondazione Cassa di Risparmio di Cesena
(Complementi alla "Storia di Cesena", II/2), 2013


Per comprendere il significato e il contenuto di questo volume, celebrativo dei cinquant’anni di vita del nostro seminario, dobbiamo andare indietro di quattrocentocinquant’anni e fissare un poco d’attenzione al Concilio di Trento, quando nella XXIII sessione del 1563 provvide ad un atto di riforma davvero di portata storica: l’istituzione del seminario quale unico luogo di formazione sacerdotale.

Rimane celebre quel canone XVIII del Decretum de Ordine, vergato in un latino gentile, più pedagogico che giuridico-teologico, più debitore a Quintiliano che a Tommaso: «Cum adulescentium aetas, nisi recte instituatur, prona sit ad mundi voluptates sequendas, et, nisi a teneris annis ad pietatem et religionem informetur, antequam vitiorum habitus totos homines possideat, numquam perfecte ac sine maximo ac singulari propemodum Dei omnipotentis auxilio in disciplina ecclesiastica perseveret; sancta synodus statuit, ut singulae cathedrales, metropolitanae atque his maiores ecclesiae, pro modo facultatum et dioecesis amplitudine certum puerorum ipsius civitatis et dioecesis, vel eius provinciae, si ibi non reperiantur, numerum in collegio ad hoc prope ipsas ecclesias vel alio in loco convenienti, ab episcopo eligendo, alere, ac religiose educare et ecclesiasticis disciplinis instituere teneantur. In hoc vera collegio recipiantur qui ad minimum duodecim annos et ex legitimo matrimonio nati sint, ac legere et scribere competenter noverint, et quorum indoles et voluntas spem afferat, eos ecclesiasticis ministeriis perpetuo inservituros. Pauperum autem filios praecipue eligi vult, nec tamen ditiorum excludit, modo suo sumptu alantur et studium prae se ferant Deo et ecclesiae inserviendi. Hos pueros episcopus in tot classes, quot ei videbitur, divisos, iuxta eorum numerum, aetatem ac in disciplina ecclesiastica progressum, partim, quum ei opportunum videbitur, ecclesiarum ministerio addicet, partim in collegio erudiendos retinebit, aliosque in locum eductorum sufficiet, ita ut hoc collegium Dei ministrorum perpetuum seminarium sit» (so che può esser ostico, ma un minuto di latino, in questa sala, è proprio lecito!).

Questo decreto di fatto «ordina ai vescovi, per assicurare il reclutamento del clero, di aprire dei collegi che saranno come dei “vivai” (seminaria, appunto), nei quali gli adolescenti poveri saranno ricevuti gratuitamente, […] per imparare la grammatica (cioè il latino) ed essere formati alla vita devota e clericale» (Marc Venard). I ragazzi, almeno dodicenni, sappiano leggere e scrivere, e abbiano una inclinazione a voler perseguire la vita ecclesiastica. Anche i figli dei ricchi possono esservi ammessi, ma «suo sumptu», a proprie spese.

L’assise tridentina era ben consapevole del problema dell’istruzione ecclesiastica: la quale non costituiva il fine unico del seminario ma si coniugava alla formazione religiosa e morale. Da più parti era giunta la denuncia di un clero ignorante, corrotto e corruttibile a causa dell’impreparazione culturale e spirituale. Già alcuni uomini illuminati di Chiesa, intrisi di profonda e vasta cultura umanistica, prima dell’istituzione tridentina, avevano inteso l’esigenza e l’importanza dell’istruzione per il clero, dando vita, nel secolo XV, a collegi per la formazione ecclesiastica. I cardinali Domenico Capranica e Stefano Nardini, e sant’Ignazio di Loyola istituirono i celebri collegi Romano e Germanico, l’uno per gli insegnanti e l’altro per gli alunni. Il loro esempio fu subito imitato dal cardinale Reginald Pole, arcivescovo di Canterbury, che nel 1556 avviò l’istituzione in Inghilterra. Ciò fornì ai riformatori tridentini l’esempio per i futuri seminari, la cui erezione fu ritenuta talmente importante che il cardinale Pietro Sforza Pallavicini scrisse: «[…] ove altro bene non si fosse tratto dal presente Concilio, questo solo ricompensava tutte le fatiche e tutti i disturbi, come quell’unico strumento il quale si conosceva per efficace a riparare la scaduta disciplina: essendo regola certa, che in ogni repubblica tali abbiamo i cittadini, quali li alleviamo […]». Pio IV diede per primo l’esempio aprendo il suo seminario nel 1565, anche se suo nipote, il santo arcivescovo milanese Carlo Borromeo, già dal 1564 ne aveva fondato uno proprio nel capoluogo lombardo.

La formazione del clero cambia nel momento in cui non vi era soltanto bisogno di chi amministrasse semplicemente i sacramenti, ma si rendeva necessaria una profonda revisione pastorale del ruolo del sacerdote nel suo territorio di appartenenza e del suo operato, modulando la tipologia di percorso formativo da compiere secondo le direttive poste dall’Ordinario diocesano. Nel Seicento si comprese l’utilità dei seminari che svolgevano, oltre ad un’azione di educazione dei giovani, anche altre «per il pubblico bene delle diocesi, per il servizio delle chiese e per l’incremento del culto divino». Papa Benedetto XIII (proprio il nostro Orsini) creò nel 1724 una speciale Congregazione dei seminari o Ministero dell’Istruzione Ecclesiastica, con il fine ben preciso di promuovere la fedele e universale applicazione del decreto tridentino; due anni più tardi si preoccupò di responsabilizzare ulteriormente il vescovo ed il clero a contribuire all’istituzione e conservazione dei seminari. L’ecclesiologia cristiana, nel suo processo di evoluzione, si sforzava di convalidare l’idea del seminario come istituto al servizio dell’intera diocesi, ma molte furono le difficoltà incontrate, in particolar modo per obbligare alla contribuzione in favore dei seminari: talvolta era addirittura il clero beneficiato che più di tutti recalcitrava nei confronti dell’imposta diocesana per il seminario.

Il Novecento porta al nuovo ma parte dall’antico. Il seminario viene delineato nel Codex Iuris Canonici del 1917 con un canone che recepisce perfino alla lettera il Concilio di Trento (can. 1353: «Dent operam sacerdotes, praesertim parochi, ut pueros, qui indicia praebeant ecclesiasticae vocationis, peculiaribus curis a saeculi contagiis arceant, ad pietatem informent, primis litterarum studiis imbuant divinaeque in eis vocationis germen foveant»).

Pio XII istituisce la Pontificia Opera delle Vocazioni Ecclesiastiche e papa Giovanni XXIII, con l’enciclica Sacerdotii nostri primordia, si rivolge ai sacerdoti, ai giovani, alle famiglie cristiane, alle organizzazioni cattoliche, affinché rinvigoriscano ogni forma di zelo per arricchire la Chiesa di numerose ed elette vocazioni. Proprio papa Roncalli, che aveva istituito, nel 1962, la Giornata del Buon Pastore, apre il Vaticano II dicendo: «il punctum sapiens del Concilio non era tanto la discussione dei numerosi problemi, quanto il magistero della Chiesa a carattere prevalentemente pastorale».

Paolo VI inaugura la II sessione conciliare riprendendo il termine «pastorale», ritenendolo «programmatico e glorioso», perché il Concilio l’aveva fatto suo e vi aveva polarizzato le sue finalità riformatrici [e rinnovatrici]. Nel 1963 Montini, ricorrendo il IV centenario dell’istituzione dei seminari, con la Lettera apostolica Summi Dei Verbum invita la cristianità al rilancio delle vocazioni e promuove ogni opera per arrestare lo smarrimento. Si era infatti di fronte ad una crisi non più di qualità, come nel Cinquecento e Seicento, ma di quantità: la contemporaneità aggrediva le nuove generazioni allontanandole via via da famiglia, parrocchia e Chiesa.

Papa Montini, motivando l’istituzione tridentina dei seminari, additava «la malizia del mondo che si andava estendendo sempre più al ceto ecclesiastico e lo spirito pagano che andava rinascendo nelle scuole dove era educata la gioventù. Fu per ciò che nei secoli XV e XVI si avvertì la necessità di preservare i giovani leviti dai pericoli che li minacciavano, assicurando loro una conveniente formazione in luoghi adatti, sotto la guida di sapienti educatori e maestri». Nella medesima Lettera, Paolo VI, partendo da Gesù Cristo, divino modello di seminarista e di sacerdote, ripercorreva la storia, sottolineandone i buoni motivi dell’istituzione, l’importanza e la necessità per il reclutamento e la preparazione del clero. Il pontefice decretava la Giornata Mondiale di preghiera per le Vocazioni, che completava e aiutava la Giornata Missionaria Mondiale, invitando tutte le diocesi a festeggiare l’evento.

Nonostante gli impegni pontifici e le giornate pro missioni e pro vocazioni, le iscrizioni ai seminari erano sempre limitate. La Sacra Congregazione dei Seminari lamentava una sensibile diminuzione degli alunni dei seminari minori, denunciata nell’anno 1963-’64 da ben 166 diocesi italiane su 280. Non mancava la preoccupazione causata anche dalla flessione degli alunni nei corsi superiori, e conseguentemente la riduzione delle ordinazioni di nuovi sacerdoti. Il 30 maggio 1964 si denunciava la diminuzione del 10% dei seminaristi di scuola media; inoltre, le statistiche rilevavano che in un decennio si erano ordinati 7.800 sacerdoti ma ne erano morti 9.700, con una diminuzione di quasi 2.000 unità.

Si era penetrati nella drammatica crisi delle vocazioni; in pochi anni i seminari italiani andavano svuotandosi, al punto che mons. Silvano Burgalassi (1921-2004), noto sociologo toscano, intitolava così un famoso articolo apparso su «Presbyteri» del 1976: «Seminari nuovi, vuoti, da finir di pagare…». Ma si trattava anche – sono ancora parole di Burgalassi – di «una crisi che lasciava motivi di speranza». Quella speranza mai venuta meno nel Magistero: come nel caso della Pastores dabo vobis del beato Giovanni Paolo II, che con questa esortazione apostolica post-sinodale del 1992 tornava a ribadire la formazione dei futuri sacerdoti «come uno dei compiti di massima delicatezza e importanza per il futuro dell'evangelizzazione dell'umanità». O come nell’Anno sacerdotale indetto da Benedetto XVI nel 2009, in occasione del 150° anniversario della morte di san Giovanni Maria Vianney, patrono di tutti i parroci del mondo e più noto come il santo Curato d’Ars, lo sperduto villaggio francese di 230 abitanti: papa Ratzinger intendeva così promuovere non tanto un impegno quantitativo, quanto piuttosto il rinnovamento interiore di tutti i sacerdoti. Partendo da una toccante espressione del Vianney («Il Sacerdozio è l’amore del cuore di Gesù»), Benedetto XVI spronava sì i sacerdoti ma stimolava anche i laici a considerare l’unicità e la preziosità del dono sacerdotale.

Era per me indispensabile situare la storia del nostro seminario nel grande alveo della storia della Chiesa: non per separarlo ma per poterlo significare in tutta la sua portata. Che peraltro corrisponde al contenuto – vasto, vario ma corale – di questo importante volume, curato con sperimentata perizia dal nostro mons. Amaducci, ormai non più avviato ma inoltrato nella pubblicistica e nella ricerca storica. Non era semplice progettare indagini a più mani su un tema, meglio, su un luogo, che in definitiva è un tempo, o, come ben dice papa Wojtyła nella Pastores dabo vobis, una comunità educativa in cammino: il seminario. I frutti del Concilio di Trento giungono rapidi in Italia, anche nella nostra regione ecclesiastica: nel 1567 aprono i seminari di Imola e Ravenna, nel 1568 quelli di Rimini e Bologna, l’11 dicembre 1569 il nostro di Cesena, per volere del vescovo Edoardo Gualandi, ad appena sei anni dalla decretazione tridentina (a Sarsina sorgerà nel 1643, eretto dal vescovo Carlo Bovio a prezzo di enormi sacrifici). Si parte dagli obiettivi più urgenti: dotare il futuro clero parrocchiale di una formazione pastorale essenziale, con l’ausilio di casi di coscienza e piccola dogmatica; vi si insegna Sacra Scrittura, morale, oratoria sacra, apologetica e liturgia. La prima sezione del libro permette di seguire la storia del nostro seminario dalla nascita fino ai giorni nostri, passando in rassegna sede e patrimonio, ordinamenti e costituzioni, requisiti e tenore di vita, vicende e peripezie, comprese chiusure e soppressioni, fino a giungere al tardo Ottocento e a quella che viene definita l’età d’oro del seminario, quando si apre una stagione che fa emergere figure carismatiche e imponenti: i rettori Giuseppe Brunazzi e Aldo Severi, insegnanti come Luigi Praconi e Pietro Severi. E lungo sarebbe l’elenco di personalità spiccate e autorevoli che non a caso hanno incrociato il mondo della scuola e illustrato tanto il seminario quanto il liceo classico cittadino; si pensi, soltanto per citare i reverendi più noti, a Cesare Montalti, Giuliano Mami, Cesare Angelini, Giovanni Ravaglia, Primo Brighi, Lino Mancini: autentici personaggi e protagonisti del ginnasio e del seminario, e della cultura cesenate.

Il nostro seminario “Giovanni XXIII”, inaugurato nel 1963, è frutto della tenacia pastorale di Gianfranceschi ma è figlio del Concilio, anche se la prima pietra fu posta il 3 settembre 1961 e l’assise aperta un anno dopo, l’11 ottobre 1962. Conosciamo bene come il vescovo Augusto ha vissuto il tempo dello svolgimento, del pre- e del post-concilio: con pienezza fedele e fiduciosa, con l’intrepida urgenza che lo caratterizzava e che talvolta lo portava a bruciare le tappe o, come nel caso del seminario, a precorrere la calibratura, se non di modi e tempi, delle ragioni. Qui mi piace segnalare la quasi contemporanea apertura del seminario di Sarsina, con medesima tenacia voluto dal vescovo Carlo Bandini (1953-1976) e inaugurato appena un anno dopo, nel 1964, con intitolazione a san Pier Damiani; aggiungo poi che non va taciuto il ruolo sociale del seminario, specie per le periferie o le vallate: basti pensare a quanti giovani sono divenuti professionisti grazie agli studi, gratuiti, compiuti in seminario, specie nel secondo dopoguerra.

L’entusiasmo conciliare di Gianfranceschi, subito convogliato in fervente e intelligente azione pastorale, è già stato ben indagato e messo a fuoco nel libro Il concilio a Cesena, la miglior fatica di don Walter, presentato in questo stesso luogo nel 2007: un volume di capitale importanza per la storia della nostra Chiesa, per la figura del vescovo Gianfranceschi, ma anche per la storia della recezione del Concilio in Italia. Così non poteva che essere don Walter a scrivere il capitolo sul nuovo seminario, con puntuale narrazione di tappe e passaggi, non facili e non brevi: se è vero che al 10 aprile 1957 risale il primo intento di costruirlo, vale a dire neppure tre settimane dopo l’ingresso in diocesi del pastore che l’avrebbe guidata per vent’anni! Mentre tocca a don Pier Giulio Diaco chiudere la prima sezione con un bilancio “pastorale” di questi cinquant’anni. La seconda parte, svolta per approfondimenti monografici, conduce nella vita, nell’ambiente e nei personaggi del seminario. Un felice excursus sui metodi formativi da Trento al Vaticano II; il legame fra seminario e cultura cesenate; la chiesa dell’edificio vecchio e i suoi dipinti; la cappella del nuovo con il ciclo dei graffiti di Mirco Casaril, dei quali don Walter ci offre una puntuale lettura teologica; la villa di Carpineta e uno spaccato sui soggiorni estivi; una serie di profili biografici; la cronotassi dei rettori. Nella terza parte si dà ampio spazio alla documentazione, con testi, elenchi e ricognizioni: l’archivio storico, il fondo antico della biblioteca, una serie di documenti e la bibliografia.

Il volume è poi impreziosito da tre inserti iconografici con 120 fotografie che sono davvero una storia nella storia, cariche come sono del sapore che hanno i ricordi, le memorie e la nostalgia; in particolare, vi segnalo le ultime due, particolarmente emozionanti: ci mostrano, attorniato dal vescovo Luigi Amaducci (1977-1990) e dal rettore don Onerio Manduca, Giovanni Paolo II, raccolto e prostrato – come lui sapeva essere – davanti al Cristo Sommo ed Eterno Sacerdote di Casaril e di Gianfranceschi, in quel 9 maggio 1986 che non possiamo dimenticare.

Questo libro – frutto del lavoro di quattordici collaboratori che non sto a elencare ma che potrete apprezzare scorrendone le pagine – ci rammenta che i frutti del seminario erano e sono tutt’ora destinati, nonostante i mutamenti di forme e concezioni, tanto alla comunità diocesana quanto a quella civica: basta chiedersi quante sono le storie, individuali o collettive, urbane o rurali, inseparabili dai preti e dai parroci che, per gesti e figure, hanno caratterizzato, guidato e segnato la crescita e lo sviluppo delle persone, delle famiglie e delle comunità.

Non ci possiamo nascondere che i tempi sono cambiati: una volta, per esempio, ci si interrogava sulle dimensioni ideali di una parrocchia, mentre oggi lo si fa sulle dimensioni ideali di una unità pastorale, chiedendosi quante parrocchie si possono affidare a un prete. Eppure al sacerdote si potrebbe applicare una famosa frase di Friedrich Nietzsche ne La gaia scienza (1882): «Che cosa ti dice la tua coscienza? Tu devi diventare quello che sei»; per abbracciare «ciò che “proviene dall’essere” che si è», per usare una pregnante espressione della lettera di papa Francesco a Eugenio Scalfari.

Sì, sono mutati i tempi (lo manifesta anche la citata lettera papale all’ex direttore di «Repubblica»!), ma non gli aneliti e le necessità del cuore dell’uomo: è sufficiente guardarsi attorno, leggere i giornali o ascoltare la TV. Viene alla mente una celebre sentenza del Curato d’Ars: «Cent'anni senza prete e la gente finirà per adorare gli animali». L’espressione è forte e cruda, certamente iperbolica, diciamo pure anche un poco paradossale: ma non ne intravvediamo forse la verità?